La scorsa settimana, la Commissione sull’Intelligence della Camera dei Rappresentanti americana ha pubblicato il suo rapporto sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Come già annunciato, non sono state trovate indicazioni di collusione tra Donald Trump e la Russia, o tra questa e la sua campagna. Benché sia comunque pieno di accuse nei confronti di Mosca, il rapporto conferma che tra i documenti usati dall’FBI non v’era alcuna informativa di enti statunitensi, ma solo “informazioni” estratte dal dossier stilato dall’ex agente dell’MI6 Christopher Steele.

I democratici in commissione hanno stilato un rapporto di minoranza che, fondamentalmente, si lagna del fatto che i lavori si sono conclusi troppo in fretta (dopo dodici lunghi mesi?) e non sono stati sufficientemente rigorosi. Si tratta comunque di un giudizio non condiviso da molti nel partito, sia in Congresso che alla base. Un ex consigliere strategico di Bill Clinton, Mark Penn, ha espresso il suo stato d’animo in un editoriale su The Hill il 26 aprile:

“L’inchiesta era contaminata fin dall’inizio”, ha scritto Penn. “L’ex spia britannica Christopher Steele era un cliente del governo quando passò illegalmente a Yahoo il dossier e mentì a proposito. Lisa Page e Peter Strzok, membri del team di Mueller e agenti dell’FBI, hanno operato con tanto odio palese contro Trump che sono stati rimossi dall’inchiesta, non prima di averne gestito parti cruciali; e i capi di FBI e CIA hanno contribuito a diffondere e difendere un dossier su Trump che, pur non avendo mai verificato, hanno usato per spiare sugli americani”.

L’intera inchiesta di Robert Mueller (nella foto con Bush) è così “irrimediabilmente contaminata”, conclude Penn, che dovrebbe essere chiusa o denunciata in tribunale.