L’annuncio del Presidente Trump di potenziali dazi per 50 miliardi di dollari su prodotti cinesi, a cui ne ha aggiunti altri 100 in risposta alla contromossa cinese, ha fatto parlare di guerra commerciale inevitabile. Ma è così?

Ci sono due questioni da prendere in considerazione, che vengono generalmente ignorate dai difensori del sistema attuale in via di collasso, gli stessi che propongono di usare la guerra commerciale per punire la Cina dei suoi successi economici, e tra i liberisti anti-Trump che dipingono il Presidente americano come un folle inarrestabile.

Punto numero uno: esiste un problema reale nel commercio tra Stati Uniti e Cina. Nel 2017, Washington aveva un deficit commerciale di 375 miliardi di dollari con Pechino. Trump ha criticato giustamente i Presidenti che lo hanno preceduto per la loro pessima politica commerciale, dalla quale la Cina ha tratto vantaggio. Tra le cause principali identificate da Trump sono la delocalizzazione verso Paesi con manodopera a basso costo e la politica di deindustrializzazione imposta alle imprese americane, che risale agli anni Settanta. Secondo il sistema americano di economia politica, che Trump ha sostenuto in passato, una politica protezionistica serve a stimolare la produzione americana contrastando il “dumping” di prodotti a basso costo. I dazi su acciaio e alluminio che ha imposto il 1 marzo servivano a tutelare le imprese americane, in modo che potessero riaprire gli impianti e riassumere forza lavoro.

Ma c’è una differenza tra tutelare l’industria nazionale e i posti di lavoro, e punire un concorrente. Aumentare il prezzo dei beni importati non servirà di per sé a riavviare industrie che hanno chiuso i battenti perché non erano più competitive. Quelle industrie hanno bisogno di credito per nuovi impianti, credito che richiede a sua volta una riorganizzazione del sistema bancario americano, a partire dal ripristino della separazione bancaria con la legge Glass-Steagall, per tutelare le banche commerciali che elargiscono crediti per espandere l’economia fisica, e adottando una politica creditizia hamiltoniana, che fornisca credito a bassi tassi di interesse per gli investimenti, finanziando anche la formazione della forza lavoro e ricerca e sviluppo per aumentare la produttività. La politica speculativa di “arricchirsi in fretta” e degli accordi multilaterali di libero scambio, iniziata negli anni Ottanta, ha distrutto la produttività americana, aprendo le porte alla Cina e ad altri Paesi, che si sono sostituiti con la loro produzione.

Punto numero due: Washington ha concesso a Pechino sessanta giorni per fare ricorso contro i dazi proposti, per la cui entrata in vigore non è stata fissata alcuna data. Questo lascia tempo ai negoziatori dei due Paesi per risolvere le differenze. E nonostante la dura retorica da ambo le parti, il dialogo procede. Ad esempio, il Premier cinese Li Keqiang, e molti altri, hanno proposto di aumentare gli scambi investendo per esempio in joint venture in Paesi terzi, tramite l’Iniziativa Belt and Road. C’è anche la possibilità di investimenti cinesi in America, discussa tra il Presidente Trump e quello cinese Xi Jinping, in particolare nelle infrastrutture, investimenti che creerebbero molti posti di lavoro produttivi.

Certo, c’è il rischio che emerga una guerra commerciale. Ma è anche possibile che la discussione conduca a un livello più alto di cooperazione bilaterale, auspicata sia dal Presidente Xi sia dal Presidente Trump, che sarebbe nell’interesse di entrambe le nazioni.