L’amministrazione Biden ha dato sfoggio di ciò che intende con “aura di potere” la scorsa settimana, nel suo nuovo approccio verso Cina e Russia. Biden ha lanciato una minaccia senza precedenti nei confronti di Putin, mentre il duo Blinken-Sullivan (segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale) hanno aperto l’incontro in Alaska con la delegazione cinese con accuse al limite dell’insulto, che i cinesi hanno ricambiato aggiungendo il carico. Date le tensioni accumulate negli ultimi mesi tra gli Stati Uniti e le due potenze rivali, questi scambi rischiano di portare le relazioni ad un livello pericoloso.
Mentre gli USA impongono una nuova serie di sanzioni contro la Russia, col pretesto che dietro il presunto tentativo di avvelenamento di Alexei Navalny ci sarebbero i servizi del Cremlino, che dietro all’attacco cibernetico contro SolarWinds ci sarebbero hacker russi e che sempre i russi avrebbero interferito anche nelle elezioni del 2020 (il tutto senza uno straccio di prova), il 17 marzo Biden ha concesso un’intervista a George Stephanopoulos, verosimilmente con domande e risposte concordate, in cui ha risposto “Sì” alla domanda se egli pensasse che il Presidente russo sia un “killer”. Putin “pagherà un prezzo” per le presunte interferenze nelle elezioni, ha aggiunto. Non contento, ha detto di credere che Putin non abbia “un’anima”.
Come parte del “prezzo” che la Russia pagherà, secondo fonti dell’amministrazione citate dal New York Times, ci saranno attacchi cibernetici non meglio specificati contro enti statali russi. Blinken ha aggiunto che gli Stati Uniti aumenteranno le pressioni su Paesi ed imprese che fanno affari con la Russia, con una serie di sanzioni miranti a bloccare il gasdotto Nord Stream 2, ormai quasi completato, che raddoppierebbe le forniture di gas russo ai clienti europei.
La reazione di Putin all’attacco di Biden non deve ingannare. Il Presidente russo ha risposto con ironia, affermando che Biden forse proietta il proprio stato d’animo, ma il richiamo dell’ambasciatore a Mosca sottolinea la gravità del fatto.
Riguardo al vertice USA-Cina menzionato in apertura, tenutosi in Alaska il 18 marzo, Blinken ha aperto i lavori esigendo che Pechino torni a un “sistema basato sulle regole” e ha accusato la Cina di persecuzione ai danni degli uiguri e di altre minoranze nello Xinjiang, azioni antidemocratiche a Hong Kong, attacchi cibernetici negli USA e “coercizione economica” sui vicini. “Ognuna di queste azioni”, ha affermato, “minaccia l’ordine basato sulle regole e che mantiene la stabilità globale”. Questa è ormai un’accusa standard lanciata dagli americani contro ogni nazione che sfidi l’approccio unilaterale richiesto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati e che in realtà mira a mantenere un ordine che avvantaggia solo l’oligarchia finanziaria della City di Londra e di Wall Street. Il vertice è stato preceduto dall’annuncio di sanzioni contro 24 cittadini cinesi – motivate da accuse inventate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione uigura – e da un incontro tra funzionari USA e leader del “Quad”, un’alleanza tra USA, Australia, India e Giappone pensata per contrastare le presunte “intenzioni malvagie” della Cina nella regione.
La reazione cinese è stata brusca e diretta. “La Cina si oppone fermamente all’interferenza statunitense nei propri affari interni. Abbiamo espresso la nostra dura opposizione a tale interferenza e prenderemo azioni ferme sul tema dei diritti umani”, ha ribattuto il ministro degli Esteri Yang Jiechi, facendo riferimento al fenomeno Black Lives Matter come esempio dell’esistenza di problemi nel campo dei diritti umani negli USA.
Dopo la scenata pubblica, l’incontro è proseguito a porte chiuse e sono trapelati pochi dettagli. Il quotidiano cinese Global Times ha visto l’evento in chiave positiva, definendolo “meglio delle aspettative”. Sono stati compiuti dei progressi nel miglioramento della “comprensione reciproca” e per “evitare errori di calcolo strategico”, afferma l’articolo, che tuttavia si conclude con un avvertimento: “È illusorio cercare di abbattere la Cina”.
Il 22 marzo, l’Unione Europea ha seguito a ruota il governo USA, adottando sanzioni contro quattro funzionari cinesi per presunta violazione dei diritti umani nello Xinjiang. In realtà si colpiscono gli sforzi del governo cinese di contrastare la radicalizzazione islamica e separatista con programmi di scolarizzazione e formazione professionale. Il ministero degli Esteri di Pechino ha risposto che “questa mossa, basata su nient’altro che menzogne e disinformazione, ignora e distorce i fatti, interferisce pesantemente negli affari interni cinesi, viola il diritto internazionale e le norme fondamentali che regolano i rapporti tra le nazioni e mina gravemente quelli tra la Cina e l’UE”.
Come rappresaglia, Pechino ha deciso di sanzionare dieci individui e quattro enti che “danneggiano gravemente la sovranità e gli interessi della Cina e diffondono maliziosamente menzogne e disinformazione”. Tra questi vi sono i parlamentari europei Reinhard Butikofer, Michael Gahler, Raphael Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk, Miriam Lexmann e l’Istituto Mercator per gli Studi Cinesi in Germania.