Maria Antonietta Saracino, per Il Manifesto

Amelia Boynton Robinson Nata in Georgia nel 1911, settima di dieci figli, ha raccontato la sua vita e la sua militanza politica per i diritti civili e contro il segregazionismo nel romanzo autobiografico «Bridge Across Jordan» Una biografia che riassume un secolo di storia americana quella di Amelia Boynton Robinson, vitalissima novantunenne che, a fianco della madre prima e di Martin Luther King poi, ha combattuto per i diritti dei neri. E oggi dei latini, dei chicanos e dei bianchi che denunciano le responsabilità delle banche Usa nel riciclaggio di denaro sporco e nel narcotraffico. Come Lyndon LaRouche. E del presidente americano dice: «In Afghanistan ha agito come Erode»

Alta e magra, tailleur di seta fucsia e viola, grandi orecchini d’argento e un viso sorridente e aperto. Amelia Boynton Robinson, leader nella lotta dei diritti civili degli afro-americani, collaboratrice e amica di Martin Luther King, è in Italia per una serie di incontri pubblici, (domani, alle 17.30, sarà presso la libreria Paesi Nuovi, a piazza Montecitorio) che oggi la vede a Roma, alla Casa delle Letterature, ospite dell’assessorato alla cultura del Comune di Roma e del Movimento internazionale per i diritti civili «Solidarietà» con cui collabora da tempo. È alla vigilia di questo appuntamento che la incontriamo per parlare di lei, del suo impegno politico e di una vita intensamente spesa nella lotta a difesa dei diritti dei popoli, una vita toccata per molti versi dal dono della eccezionalità. A cominciare dal fatto che la bella signora, sul cui volto di afro-americana si intrecciano i tratti Cherooke ereditati per via paterna e anche una lontana ascendenza tedesca, il 18 agosto scorso ha compiuto la rispettabile età di novantuno anni. E se non molti, qui da noi, conoscono il nome di Amelia Boynton Robinson, la sua immagine, in anni lontani, fece il giro del mondo in occasione di una famosa marcia per i diritti civili organizzata a Montgomery, Alabama, da Martin Luther King il 7 marzo del 1965 , presto repressa con tale violenza dalla polizia, da far passare alla storia quel giorno come Bloody Sunday, ossia la domenica di sangue.

Fu a seguito di quella marcia e del clamore suscitato, che alla fine dello stesso anno il presidente Johnson firmò il decreto che sanciva il Voting Rights Act, ossia diritto di voto per la gente di colore, e che consentiva a molte persone di registrarsi come elettori. Ma questo non è che uno dei molti episodi importanti che costellano la lunga esistenza di Amelia, e dei quali diffusamente parla nella sua autobiografia, Bridge Across Jordan, (Un ponte sul Giordano), che in America è stato a lungo un best-seller. E quando le faccio notare che a leggere quelle pagine si ha l’impressione che la sua vicenda personale riassuma quasi un secolo di storia americana, ride compiaciuta. «Sì, sono una donna molto fortunata», risponde con voce profonda, voce che sarebbe stata quella di una cantante blues se i gas della polizia, in quella famosa domenica del 1965, non le avessero danneggiato irreversibilmente i polmoni, costringendola a cambiare progetti, «ma fortunata soprattutto per essere arrivata ad avere una vita così piena e intensa alla mia età. Perché non è da tutti. I miei coetanei, in generale, arrivano a questa età con molti problemi fisici e mentali; è per questo che quando vado a parlare nelle scuole, mi piace far sapere quanti anni ho. I giovani debbono capire che il corpo, come la vita stessa, ci è dato in prestito per farne buon uso, e se possibile qualcosa di utile, perché ci viene da Dio. Sì, sono stata eccezionalmente fortunata».

E a chi le chiedesse il segreto di questa longevità così attiva, a partire dalla sua esperienza, date le circostanze che hanno accompagnato la sua vita di afro-americana, che cosa risponderebbe?

Tenete pulito il vostro corpo, ma soprattutto tenete pulita la vostra mente. Pulita dall’odio, innanzitutto, una cosa non proprio facile. Perché costa fatica, si deve lottare, fino a quando si capisce che l’odio danneggia chi lo prova, oltre chi lo riceve. E poi lottare, per le cose in cui si crede, altrimenti quello spazio interiore viene occupato dalla paura. E’ difficile fare i conti con questi due sentimenti, l’odio e la paura, soprattutto quando si vive una vita tutta segnata dalla discriminazione. L’ho imparato tanto tempo fa. Ero giovane, piena di rabbia e di odio per quello che vedevo succedere intorno a noi neri. Un giorno, che avevo urlato e pianto fino a ridurmi la faccia a una specie di maschera di gonfiore, mio marito mi portò davanti allo specchio e mi disse «Guardati. Non vedi quanto male ti stai facendo? A che ti serve?» E capii che l’odio mi stava distruggendo e che a mia volta stavo distruggendo me stessa. E io invece amavo me stessa. Così smisi di piangere e odiare e cominciai a dare una forma più coerente e strutturata alla mia rabbia dedicandomi al movimento per i diritti civili, del quale tutt’ora faccio parte.

Mentre parliamo, da una finestra aperta arriva il suono assordante delle campane di una chiesa vicina. Amelia Boynton Robinson chiude gli occhi con un sorriso, e ascolta. Poi riflette che le campane, ormai, in America, non le vuole più nessuno, ed è un peccato.

Perché l’America non ama più le campane?

Perché danno fastidio, e nessuno più ama quel tipo di rumore. Perciò le chiese sono diventate silenziose. Da noi, a Selma, in Alabama, un tempo si sentivano le campane. E anche a Tuskagee, dove vivo oggi. Ma molto, nel sud degli Stati Uniti è cambiato in termini di territorio, specialmente dopo che nel 1964 venne emanato il Decreto per i Diritti Civili. Perché a quel punto molti bianchi cominciarono ad allontanarsi da certi piccoli centri del sud per non trovarsi a vivere accanto ai neri, ai latini, ai chicanos. E per evitare spopolamenti di massa, che creavano un danno economico, ad alcuni speculatori edilizi venne l’idea di costruire delle grandi aree con case a basso costo da vendere ai neri. E così interi quartieri cominciarono a spuntare quasi da un giorno all’altro. Case di legno, talmente mal fatte che cadevano a pezzi dopo pochi giorni. Letteralmente. Cercavi di aprire una finestra e questa si staccava dal muro, con tutta la cornice. Nella fretta e per risparmiare usavano legno non stagionato, verde, che non serviva a niente.

È cambiata la situazione, da allora?

Solo in parte. In Germania, come altrove, in questi anni sono caduti tanti muri e si è sentita una sorta di sottile rivoluzione verso nuove forme di libertà, mentre in America, nonostante lotte e successi nelle battaglie per i diritti civili, ci sono ancora milioni di esseri umani, affamati, senza lavoro, che dormono per strada, che non vanno a scuola; e c’è ancora la segregazione, nelle case, nelle chiese, nelle scuole e nelle comunità. Molto di questo riguarda noi afro-americani, che essendo americani a tutti gli effetti dovremmo avere identici diritti e privilegi di tutti gli altri cittadini. Ma così non è. Questo paese dovrebbe, ad esempio essere il primo a tendere una mano all’Africa, dove ancora troppi bambini muoiono di fame, ma questo ancora non succede. E mentre prima, e per quasi duecento anni, l’ingiustizia è stata rivolta verso noi afro-americani, adesso non è più così. E se prima erano i leader neri a pagare il prezzo più alto, come è successo a Martin Luther King, adesso vai in galera anche se sei bianco e lotti per elementari forme di giustizia economica, come è successo Lyndon LaRouche, economista e leader politico, bianco, che è stato condannato a quindici anni di prigione per aver svelato le responsabilità delle banche americane nel riciclaggio di denaro sporco e nel narco-traffico.

La sua vita – e, a quanto racconta, anche quella dei tre mariti che ha avuto, anche loro impegnati nel movimento per i diritti civili – è sempre stata vissuta all’insegna della militanza politica. C’è stato un momento o un episodio che l’ha condotta a questa scelta?

Sono così fin da piccola e mi viene dall’insegnamento di mia madre, che era a sua volta una attivista politica. Sono la settima di una famiglia di dieci figli. Vivevamo a Savannah, in Georgia. Poi la famiglia si è trasferita a Filadelfia, Pennsylvania dove mia madre è diventata il primo segretario della Negro Chamber of Commerce. Ma quando nel 1921 fu concesso il diritto di voto alle donne, mia madre e io andavamo in giro per Savannah, con un calesse. Mia madre lo guidava. Eravamo io e lei. Lei si fermava davanti a ogni casa, io scendevo, andavo a bussare e cominciavamo a parlare e a convincere le donne del fatto che dovevano andare a votare e le accompagnavamo a registrarsi per il voto. È lì che ho imparato, è una cosa che è stata sempre con me. Perché, vedi, anche quando il diritto al voto è stata una cosa acquisita, e ti parlo di anni recenti, pur di non far votare i negri si erano inventati un sistema di registrazione per poter votare, così complicato e farraginoso, con un lungo modulo da riempire e firmare, che pochi ci andavano. Dovevi avere delle proprietà ma non gravate da debiti, la fedina penale immacolata, un conto in banca, un comportamento sociale rispettabile, riconosciuto dalla comunità, e ben tre bianchi – voglio dire uomini, non donne, bianche- che garantissero per te. E questo per me è terrorismo, sissignore. Non c’è bisogno di prendere un fucile e ammazzare qualcuno per essere un terrorista. Per come la vedo io, se a dispetto di qualunque costituzione, vivi in un paese dove non puoi scegliere il corso di studi, non fare le scelte di vita che vorresti; quando in un paese la gran parte del denaro di tutti viene spesa a migliorare e potenziare la vita dei bianchi, lasciando ai margini neri e latini, questo come lo chiami? Ancora adesso le migliori scuole sono per bianchi, e hanno tutte nomi di santi e si chiamano cristiane – St. Mary Christian School, St. John Christian School, non è paradossale? Si chiamano cristiane, sono molto costose e nascono proprio perché alcuni si possano permettere il lusso di fare in modo che i loro figli non debbano sedere accanto a bambini neri o chicanos.

Da dove nasce questo atteggiamento?

Dalla paura. Da quel piccolo seme di odio piantato tanto tempo fa e che non si riesce sempre a estirpare del tutto, ma rinasce, tempo dopo, e in altra forma. E’ per questo che, come dicevo all’inizio, ognuno di noi deve lavorare per prima cosa su di sé, deve dire «io posso farcela, sono la migliore, perché Dio mi ha creato a sua immagine e somiglianza, e quindi non può aver creato un mucchio di robaccia». E io di questo mi devo fidare. E ti dirò un’altra cosa. Quando, dopo la laurea, cominciai a lavorare come agente immobiliare, a Selma, Alabama, dove ci eravamo trasferiti, rimasi sconvolta. I neri vivevano ancora in capanne che sembravano quelle dei loro antenati schiavi. Le scuole erano poche e in condizioni orribili, e i bambini smettevano presto di andarci. Lavoravano in condizioni pessime, pagavano le tasse, ma non potevano votare. I pochi che lo facevano dovevano votare per la «supremazia bianca», come stava scritto sulle schede elettorali. I neri lavorano e producevano reddito per i padroni, ma non per sé.

E allora che cosa avete fatto?

Io e mio marito andavamo a cercare questi lavoratori, facevamo delle riunioni notturne per convincerli della necessità di andare a votare, di avere dei diritti. Incoraggiavamo i braccianti a comprare e coltivare dei pezzi di terra per sé e non per riempire le tasche dei padroni, come all’epoca della schiavitù. E per fare meglio tutto questo abbiamo creato una associazione. E lì sono cominciati i problemi con la polizia e le autorità, che ci trattavano come terroristi fuorilegge. Allora io cercai Martin Luther King e lui venne a darci una mano. Venne a Selma e cominciammo a organizzare il lavoro. King abitava a casa nostra. E da quel lavoro è partita quella grande marcia che poi ha portato al movimento per i diritti civili.

Come era Martin Luther King?

Una persona gentile e un vero leader, una figura autorevole, con un grande progetto. Come lo è Lyndon LaRouche, con la cui organizzazione, lo Schiller Institute, collaboro oggi. Una organizzazione che si occupa di infrastrutture, di istruzione. Si tratta innanzitutto di far capire ancora una volta alle persone che hanno un potenziale di cervello, di capacità, da mettere a frutto che non devono mai pensare a se stessi come a cittadini di serie B. Dopo la morte di King e del mio secondo marito avevo smesso di far parte di una vera organizzazione, ero in pensione, e non facevo molto. Poi, come sempre, Dio lavora su di noi per vie misteriose. Mi sono sposata di nuovo e ho conosciuto, del tutto casualmente l’organizzazione fondata da LaRouche, che è un bianco, e come ho detto, è andato in prigione per le sue idee. I tempi sono cambiati dall’epoca di Luther King. Oggi si lavora in modo diverso e su temi diversi. Si usano moderne tecnologie, mezzi e tecniche diverse.

Non è singolare che voi vi occupiate di infrastrutture, anche nei paesi poveri e, contemporaneamente, Bush si è messo d’impegno a demolire quelle che esistono in altri paesi, poveri, con la scusa della lotta al terrorismo?

Per fortuna Bush non è «gli Stati Uniti». E un pover’uomo usato dalla oligarchia economica del suo paese per altri scopi, e con altri mezzi, quali il genocidio. Pensa all’Aids e a come i paesi ricchi lo usano per distruggere i paesi poveri, che tra l’altro ancora non hanno da mangiare; e quel poco che hanno sono costretti a venderlo a noi. Noi, in America, viviamo del cibo che altri paesi producono per noi, affamando se stessi. Mia madre diceva «Ricordati sempre che Dio non fa una bocca se non ha abbastanza cibo per riempirla». Il cibo c’è, solo che troppe bocche non possono raggiungerlo. E per questo che sono orgogliosa di fare parte di una organizzazione che oggi si occupa anche di questo. Dio, nella sua infinita saggezza crea anche dei leader, e li mette sul nostro cammino. I leader sono opera di Dio. Nessuno può scegliere da solo di essere un leader.

E Bush, allora? Non è anche lui un leader? Anche lui è opera di Dio?

Non diciamo sciocchezze. Lui è uno strumento. Dio non ha niente a che fare con lui. E quello che è peggio è che è uno che non ascolta. Tutto il mondo gli dice di non andare in Iraq, ma lui non ci sente. Come con l’Afghanistan. Ha fatto come Erode, nella Bibbia. Gli dissero che c’era un bambino che sarebbe stato re e lui chiese che glielo portassero. Ma siccome nessuno lo faceva, lui fece uccidere tutti i bambini sotto i due anni, per cercare quell’unico bambino che sarebbe stato re; ma senza successo. Così Bush con bin Laden. Ha distrutto un’intera nazione per tirar fuori un unico uomo; ha ammazzato donne, bambini, distrutto tutto; e adesso ricomincia da un’altra parte. Sono passati duemila anni, ma la mentalità è rimasta la stessa. All’origine, solo avidità, di ogni genere. Ma siamo pazzi? No, non è questa «l’America», non per tutti. Io per fortuna la penso diversamente. E come me molte altre persone.

Progetti per il futuro?

(Amelia Boynton Robinson, 91 primavere, sorride) Ho davvero molto da fare, però vorrei tornare di nuovo in Italia, magari per creare una nuova sede per il nostro movimento.