L’annuncio che i tre partiti negozianti la coalizione di governo avevano raggiunto un accordo sulla road map da seguire è stato in genere accolto positivamente in Germania e all’estero. Angela Merkel, in carica per gli affari correnti da quattro mesi, si è detta ottimista sul fatto che l’opposizione interna alla SPD verrà superata e si potrà formare un governo entro febbraio. “Il mondo non ci aspetta”, ha dichiarato.

È vero. Ma i leader di CDU, CSU e SPD, compresa la stessa Merkel, non hanno dato alcun segnale di voler aderire alla promettente dinamica politica ed economica globale messa in moto dal paradigma della Nuova Via della Seta. Al contrario, nelle ventotto pagine della road map stilata il 12 gennaio viene ribadita la linea delle politiche fallimentari fin qui seguite. Il documento asserisce che la Germania può procedere verso l’integrazione europea, e cioè continuare a costruire un'”Europa” che si considera un baluardo contro le sfide poste dagli Stati Uniti di Trump, dalla Russia di Putin e dalla Cina di Xi. La solita geopolitica.

Questo, mentre sui media prevale un atteggiamento ostile verso la Cina. Ciò è esemplificato da un lungo articolo di due pagine sull’edizione di domenica 7 gennaio del Frankfurter Allgemeine, tradizionale portavoce del settore bancario, in cui uno dei direttori del giornale chiedeva all’Europa di ergersi contro “i comunisti digitali della Cina” dediti a conquistare il mondo.

La road map si dice a favore della trasformazione del Meccanismo di Stabilità Europeo (ESM) in un Fondo Monetario Europeo e si guarda bene dall’affrontare il tema del credito e della separazione bancaria, ma propone semplicemente una tassa sulle transazioni finanziarie. Questo mentre la Deutsche Bank registra il terzo trimestre consecutivo in perdita, sintomo allarmante della bolla finanziaria a rischio esplosione.

Tutti sembrano abbagliati dall’apparente splendida performance dell’economia tedesca, che nel 2017 ha aumentato le esportazioni del 6,5%, gli investimenti delle imprese del 3,5% e il PIL del 2,2%, portando nelle casse dello Stato federale un surplus di 38 miliardi. Probabilmente il prossimo governo userà parte di quel surplus in spesa sociale, come concessione all’SPD, ma non ci saranno gli investimenti pubblici in infrastrutture di cui il Paese ha bisogno. Uno dei tanti indicatori reali della crisi è il declino dell’edilizia popolare: mentre nel 1987 c’erano 3,9 milioni di appartamenti disponibili per le fasce meno abbienti della popolazione, nel 2015 essi erano scesi a 1,3 milioni, e ne spariscono sessantamila all’anno. La speculazione che alimenta la bolla immobiliare con i soldi della BCE non è interessata a costruire appartamenti a buon mercato, anche se l’arrivo di oltre un milione di profughi negli ultimi due anni ne ha sottolineato l’urgenza.