C’è quella che può essere definita una “dinamica paradossale” alla base dell’attuale politica strategica degli Stati Uniti, risultato della tendenza ad operare entro i vincoli di una prospettiva geopolitica imperiale britannica. Paradossale perché, benché gli assiomi che determinano la politica si siano dimostrati un disastro per gli Stati Uniti, i loro alleati e le nazioni da loro prese di mira, c’è poca discussione pubblica sulla necessità di uscire da questi vincoli. Questo processo è evidente in due sviluppi in corso, che sono intimamente collegati tra loro, anche se non in modo ovvio.
Il primo è presentato nell’ultimo libro di Bob Woodward e Robert Costa, intitolato Peril, riguardante le dichiarazioni presumibilmente fatte dal Generale Mark Milley, capo degli Stati Maggiori Riuniti. Secondo i brani anticipati la scorsa settimana, Milley avrebbe detto di aver parlato due volte con la sua controparte in Cina, poco prima delle elezioni del 2020 e di nuovo dopo la cosiddetta insurrezione del 6 gennaio a Capitol Hill. La sua intenzione, dice Milley, era quella di assicurare i cinesi di voler mantenere la stabilità tra i due Paesi, fino al punto di promettere di avvisare Pechino in anticipo se l’allora presidente Trump avesse deciso di lanciare un attacco contro la Cina. Questo ha provocato molti commenti: da una pare i tifosi di Milley, che lo elogiano per essersi insubordinato “in nome della pace”, dall’altra gli oppositori, secondo cui agire alle spalle del Presidente è un’azione sovversiva e Milley dovrebbe essere licenziato o rispondere ad una corte marziale.
Dal canto suo, Donald Trump dichiara che non avrebbe mai ordinato un attacco alla Cina.
Nella retorica infuocata che le rivelazioni hanno prodotto, è sfuggito un altro aspetto del sovvertimento della leadership presidenziale da parte di Milley, che è il ruolo che ha svolto nel sabotare la decisione di Trump di ritirarsi dall’Afghanistan. Anche dopo la decisione di Biden ha dichiarato di ritenere che le forze armate statunitensi debbano tornare in Afghanistan, ovvero che debbano continuare le “guerre permanenti”.
La seconda questione è quella del nuovo accordo di sicurezza annunciato il 15 settembre tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti. Anche se Biden ha annunciato di voler porre fine all’ ‘era delle guerre permanenti’, l’accordo AUKUS viene inequivocabilmente visto dai cinesi come un’operazione aggressiva di contenimento della Cina che potrebbe degenerare in guerra. Quindi, il ritiro dall’Afghanistan era dettato dalla ricerca della pace, o è stato un “perno” pienamente all’interno della geometria della geopolitica imperiale, che abbassa la soglia di un possibile scontro nucleare tra gli Stati Uniti e la Cina?
Il 9 settembre, Joe Biden ha avuto una lunga conversazione telefonica con Xi Jinping, che è stata descritta come una “ampia discussione strategica”, mirante a garantire che “la competizione non sfoci in conflitto”. Ma se Biden vuole veramente evitare il conflitto con Pechino, perché annunciare bruscamente il nuovo accordo strategico, che è un’esplicita strategia comune per creare un cordone sanitario navale intorno alla Cina?
A questo si aggiungano i commenti fatti il 13 settembre al Brookings Institute dal vicecapo degli Stati Maggiori riuniti, il generale John Hyten, il quale ha detto che “un esercito apolitico” è “uno degli elementi più forti del nostro Paese” e che “il nostro obiettivo [militare] dovrebbe essere quello di non andare mai in guerra con la Cina e mai con la Russia”. Se c’è veramente un’opposizione alla politica di guerra legata alla geopolitica britannica, è il momento di renderla pubblica.