Nessuna efficace azione politica può essere attuata senza tenere conto dei precedenti storici, dell’analisi e della selezione degli stessi.


Questa analisi e selezione dei precedenti – apparirà ai più inverosimile – porta a considerare che in questo momento la politica economica (e non quella estera, si badi bene!) italiana e più in generale quella mondiale, è spiritualmente e tecnicamente antiamericana. Questo antiamericanismo è rintracciabile per certi aspetti negli eredi politici del comunismo, per altri, in quelli dell’empirismo di radice britannica, altrimenti conosciuto come liberalismo.


L’origine degli Stati Uniti d’America passa per un processo di affermazione di quei principi umanistici anti-illuministi che possono essere più propriamente ricondotti alla figura di Wilhelm Gottfried Leibniz, del cui pensiero Benjamin Franklin era approfondito studioso. A Leibniz, ultimo grande pensatore universale, è infatti riconducibile l’enunciato della Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776, “che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità”.


In concreto, la Rivoluzione americana viene attuata lottando contro il liberoscambismo (liberismo) preteso dai britannici e denunciato per la sua funzionalità alle oligarchie finanziarie inglesi che in quegli anni spadroneggiavano per il mondo [1].


Gli Stati Uniti d’America divengono così la principale potenza economica del pianeta passando per progressive fasi di sviluppo dell’economia fisica. Queste fasi di sviluppo sono tutte riconducibili a quelle politiche economiche che il Segretario del Tesoro del governo di George Washington, Alexander Hamilton, definì “Sistema americano di economia politica”. I principi di questo sistema erano i seguenti: lo sviluppo passa per l’arricchimento infrastrutturale, per le manifatture (industria), per la protezione statale delle industrie in difficoltà, per una Banca Nazionale diretta dall’azione del Governo – cosa ben diversa dal sistema della banca centrale indipendente – e per il credito statale a basso tasso d’interesse e a lunga scadenza che deve finanziare lo sviluppo dei settori strategici per lo sviluppo economico (infrastrutture ed industria).


A questi principi si rifecero l’azione politica di Abramo Lincoln, nonché il “New Deal” di Franklin Delano Roosevelt e la politica economica di John Fitzegerald Kennedy.


E’ interessante però notare come dal 1789 ad oggi, l’applicazione dell’autentico sistema americano di economia politica sia stata intervallata da politiche filo-britanniche (già il terzo Governo, dopo quelli di Washington ed Adams, si rifece ad un approccio liberoscambista, sotto la direzione economica di Albert Gallatin) che sistematicamente ogni volta hanno portato all’indebolimento della capacità produttiva statunitense. Ma è forse ancor più interessante notare come molti dei presidenti che si sono rifatti al sistema introdotto da Hamilton siano stati assassinati: oltre ad Alexander Hamilton che Presidente non fu, Harrison, Taylor, Lincoln, Garfield, McKinley e John Kennedy [2].


Soffermandoci in particolare sui miracolosi sviluppi economici prodottisi sotto le presidenze di Franklin Roosevelt e Kennedy, il rilancio economico è sistematicamente passato per un ampliamento della spesa pubblica, e dunque per un’iniziale espansione del debito. In entrambi i casi, il credito statale derivatone è stato destinato a settori produttivi strategici dall’altissimo impatto tecnologico-scientifico. Tutto ciò è dirigismo che passa per il concetto di sovranità monetaria nazionale così come enunciato dall’art.1, par. 8 della Costituzione americana del 1789 [3].


Si tratta dunque di un approccio economico diametralmente opposto a quello di origine britannica che passa per la riduzione della spesa pubblica, la riduzione delle braccia [4] dello Stato Sociale.


Questa differenziazione per cui sono i dati di bilancio la stella polare, piuttosto che l’economia reale ed i tenori di vita reale della popolazione, di cui ne fanno parte, può essere efficacemente compresa rapportandola alla concezione propriamente cristiana della religione a cospetto della concezione farisaica. Nel primo caso le regole (i dati di bilancio) sono fatte per l’uomo; nel secondo caso l’uomo è fatto per le regole [5].


La politica economica mondiale, così come sviluppatasi a partire dagli anni ’70, quando il Fondo Monetario Internazionale perse la sua originaria funzione di organo riequilibratore in aiuto dei paesi membri in difficoltà con la propria bilancia dei pagamenti, venuta meno in seguito all’abbattimento degli Accordi di Bretton Woods del 15 agosto 1971, è divenuta così propriamente antiamericana. Se si analizzano i quattro principi che stanno alla base della politica del Fmi, quella del cosiddetto Washington consensus [6], vediamo che questi attuano una politica economica diametralmente opposta a quella del Sistema americano di economia politica ed, invece, corrispondente al sistema liberista britannico.


Il vizio ontologico delle politiche liberoscambiste è quello tipico dei processi entropici che in assenza di un superiore processo organizzatore volgono all’autodistruzione. Che la si guardi dal livello della politica economica tra gli stati, o la si guardi dal livello della politica economica che disciplina i rapporti tra i privati, la politica liberoscambista ed i processi di liberalizzazione che di essa fanno parte sono efficacemente paragonabili a quel grande zoo in cui ad un certo punto si decide di liberare dalle proprie gabbie gli animali che vi stanno dentro, lasciandoli però all’interno di quello zoo. A che tipo di realtà andremmo a quel punto incontro, se non ad una lotta per la sopravvivenza dove ad avere la meglio non potrebbero che essere gli animali più forti?


Nel Sistema americano di economia politica, l’uomo riveste il ruolo centrale di ogni competente politica di sviluppo economico. La concezione di uomo che in esso si viene ad avere è quella dell’uomo prometeico che grazie alla proprie capacità cognitivo-creative aumenta le capacità produttive pro-capite e per chilometro quadrato, e dunque la densità demografica relativa potenziale [7]. Gli echi della Genesi e delle concezioni umanistiche sono dunque diretti. In tale sistema gli uomini si coalizzano nello Stato-nazione sovrano che in quanto organo rappresentativo della comunità, manifesta quegli atti di volontà dove l’intento è disciplinare le dinamiche sociali secondo un processo di stimolo delle forze individuali all’interno di una cornice comune [8].


Il macroprocesso che sta attuandosi da oltre un trentennio in Italia (e nel mondo) sta portando progressivamente alla distruzione di posti di lavoro produttivi. L’utopia è rappresentata dall’idea che uno Stato sovrano possa fare a meno del settore primario agro-industriale, e terziarrizzare in modo quasi esclusivo la propria forza lavoro. In modo sintetico il processo in corso, prossimo alla sua fase finale, si è sviluppato colpendo prima la manodopera a bassa specializzazione che ha potuto essere sostituita con manodopera delocalizzata a basso costo (in quanto senza tutele sociali). Dopo i colpi sferrati a questa parte del mondo del lavoro, si è proceduto con i lavoratori dipendenti del settore impiegatizio e dei servizi in generale, la cui capacità d’acquisto reale è andata progressivamente scemando. Successivamente è toccato ai lavoratori autonomi della piccola distribuzione (commercianti in particolare) ed agli artigiani. In questo momento il processo punta a colpire le categorie delle libere professioni e dei servizi parastatali.


Si tratta di un processo canceroso all’interno del quale vengono colpite tutte le categorie progressivamente sempre meno deboli, guidato da una serie di oligarchie che prima di giungere ad uno scontro diretto fra loro, si cibano delle prede prima più facilmente attaccabili, poi di quelle un po’ meno, fino a quando lo scontro riguarderà loro direttamente.


Tutto ciò lo si è potuto attuare grazie ad un progressivo stravolgimento dei ruoli, dove la politica da livello eteroregolatore è divenuta organo incapsulato nel livello economico [9]. Questo contro-stravolgimento lo si potrà avere soltanto nel momento in cui la fallacia di certe idee come quelle riconducibili sotto il filone del liberalismo, si avrà il coraggio di denunciare.


Questo stravolgimento tra i livelli è talmente pregnante da avere prodotto le superficiali idee per cui uno Stato debba essere gestito come un’impresa privata, senza con questo rendersi conto che se un’impresa privata non avesse al suo fianco uno Stato che le assicura la costruzione e manutenzione delle vie di comunicazione per il trasporto delle merci, delle infrastrutture elettriche per l’approvvigionamento energetico, delle scuole per la formazione qualificata dei lavoratori, degli ospedali per la cura del lavoratore indisposto, sarebbe un’impresa a regime ridotto. La deficienza di fondo consiste nel ritenere tutte queste branche dell’azione statale un qualcosa di costoso [10].


Il risultato delle liberalizzazioni del 1998 in Italia


L’attuale Governo di centro-sinistra dovrebbe ben sapere quanto siano pericolose ed infauste per le categorie più deboli le liberalizzazioni.


Il primo decreto Bersani, il d. lgs. 114/98 in materia di liberalizzazione del commercio, si prefiggeva lo scopo di consentire una migliore distribuzione sul territorio dei prodotti al dettaglio (in breve, averli più vicini a casa). Com’è tipico di ogni processo rimesso alla cosiddetta “mano invisibile” del mercato, il risultato di quelle liberalizzazioni è progressivamente stato l’esatto contrario di quanto il legislatore si prefiggeva. La liberalizzazione delle licenze, delle tabelle merceologiche e delle distanze ha prodotto fenomeni di tipo oligopolistico dove solo i più forti sopravvivono. Le possibilità venutesi a creare (liberare le energie del mercato, ci viene detto) sono state ottimali per i grandi operatori che hanno potuto sbaragliare la concorrenza più debole producendo la moria delle piccole attività al dettaglio. Oggi – sempre all’interno di una filosofia di deregolamentazione – i locali che ospitavano quelle attività sono stati trasformati in mini appartamenti. Quindi, da una migliore distribuzione dei prodotti sul territorio si è passati ad avere una peggiore distribuzione dei prodotti sul territorio. I sostenitori delle liberalizzazioni non disconoscono questo processo, evidente a tutti, quanto il fatto che a fallire sia stato il processo liberalizzatorio. Essi a tal proposito obiettano varie cose. La questione centrale consiste nel fatto che se la volontà del legislatore è di regolare meglio situazioni in fase di privilegio, deve procedere a prevedere migliori regole di normazione per quelle situazioni, non a deregolamentarle. Nella giungla della deregolamentazione, com’è ovvio che sia, ad avvantaggiarsene sono sempre i più forti.


La legge 431/98 in materia di locazioni ad uso abitativo, ispirata anch’essa dalla ridicola idea per cui liberalizzare un processo economico finisca col far sì che il settore interessato si autoregoli meglio, ha fatto sì che i canoni di locazione arrivassero a cifre tali per cui l’intero stipendio di un lavoratore finisce con l’essere integralmente assorbito dall’affitto di un bilocale che nei tempi antecedenti il ’92 [11], era, a prezzi più bassi, un quadrilocale.


Rilanciare realmente l’economia


Per rilanciare dunque l’economia del nostro Paese, come con formula efficace, ma finora solo proclamatoria, il programma di governo del centro-sinistra ha enunciato, si deve procedere ad un “cambio di paradigma”. Questo cambio di paradigma passa per un ritorno all’autentico spirito che ispira tutto il dettato della Costituzione repubblicana, una Costituzione per lo Stato Sociale, frutto di un processo di denuncia degli abomini prodotti dalle politiche liberiste sfociate poi nelle dittature degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, una legge fondamentale che mette al primo posto il lavoro (artt. 1 e 4), i diritti inviolabili ed il concetto di solidarietà (art. 2), la dignità dell’uomo (artt. 3 e 41), l’eguaglianza sostanziale (art. 3).


Per fare ciò deve essere ripreso il cammino culturale e politico portato avanti da uomini come Enrico Mattei. Mattei, così come i fratelli Kennedy e Martin Luther King, rientra tra quelle vittime eccellenti che segnarono gli anni ’60 come terra di mezzo per l’abbandono delle politiche rooseveltiane ed il passaggio a quelle liberiste filo-speculative. Oggi le politiche di quegli uomini immortali sono oggetto del plauso della Russia di Putin, del Sud-America distrutto dalle politiche liberiste del Fmi e della Banca Mondiale. Anche la Cina e l’India, con i continui investimenti fatti nelle infrastrutture, si stanno rifacendo in parte ai principi del Sistema americano di economia politica.


Ciò che dunque deve essere attuato in Italia sono infrastrutture come la Tav – un progetto importante che tuttavia allo stato della tecnica è già vetusto, visto il perfezionarsi di progetti come il Maglev a levitazione magnetica – , l’arricchimento infrastrutturale nel Meridione insieme all’ambizioso progetto del Ponte sullo Stretto di Messina che ridarebbe una carica ideale, motivazionale a tutti i cittadini del Sud Italia.


La ricerca scientifica deve tornare ad essere il perno dello sviluppo economico.


Il sistema fiscale, lungi dall’ostacolare ogni attività produttiva, deve defiscalizzare gli investimenti nell’economia reale ed i consumi delle famiglie; la rendita finanziaria, invece, deve essere duramente disincentivata e costretta ad essere incanalata dove può avere un ritorno sociale. Il sistema fiscale deve poi immediatamente cambiare rotta, centrandosi sulla progressività e sulla tassazione indiretta. A questo proposito, pena altrimenti il diffondersi di odiose politiche sperequative, la politica fiscale deve essere in aiuto delle famiglie ed ostacolare i giochi di copertura attuabili, da chi ben inserito nelle maglie del sistema tributario, riesce, con le scatole cinesi societarie, ad evadere o addirittura eludere il fisco. L’aumento dell’imposizione fiscale sulla rendita dei titoli del Tesoro, per esempio, diviene un aggravio fiscale sulle fasce medio e basse della popolazione, nel momento in cui i più facoltosi, con i giochi contabili delle società, eludono completamente la tassazione della medesima rendita finanziaria.


Il sistema scolastico deve essere arricchito riavviando progetti di formazione improntati alla riscoperta dei classici e dell’esperimento scientifico.


Il sistema sanitario pubblico tornare ad essere oggetto di investimenti piuttosto che di tagli.


Per fare tutto ciò il Governo italiano deve immediatamente procedere a mettere in discussione gli assiomi di fondo che ispirano il Trattato di Maastricht. Continuare a contabilizzare nella spesa corrente piuttosto che in quella in conto capitale, gli investimenti infrastrutturali (pesanti e leggeri), vuol dire pretendere che un barista che apre un bar contabilizzi fra i costi d’esercizio del primo anno l’intero importo per l’acquisto del banco e della macchina da caffè, piuttosto che contabilizzarli nell’attivo dello stato patrimoniale – facendoli così risultare costi invece che investimenti quali sono – e che ripartisca la relativa spesa contabile nel solo primo anno piuttosto che negli anni d’utilizzo stimato.


A questo punto, il rispetto del parametro annuale del 3% come rapporto tra il deficit ed il Pil, non rappresenterebbe più una cinghia asfissiante che impedisce ogni possibilità di rilancio reale dell’economia europea.


Il ciclo economico virtuoso che ne deriverebbe, produrrebbe quelle maggiori entrate fiscali che ripagherebbero in modo esponenziale gli sforzi finanziari dello Stato. A quel punto, il sistema previdenziale potrebbe tornare ad essere, in ossequio a quella che era la produttività italiana quando fu concepito, un qualcosa che permetta una pensione dignitosa agli attuali giovani condannati, alla luce delle attuali politiche economiche, ad una vecchiaia vissuta nell’indigenza.



di Claudio Giudici


[1] Si vedano a titolo di esempio le denuncie in tal senso fatte da Friedrich List in Système national d’économie politique.


[2] Franklin Delano Roosevelt subì un tentato omicidio ed un tentato colpo di Stato. Alcune ricostruzioni minoritarie riconducono la sua morte ad avvelenamento.


[3] In merito al credito, alla sua funzione sociale o piuttosto usuraia, si veda la tragicommedia di W. Shakespeare, Il mercante di Venezia.


[4] E’ di Benito Mussolini il ricorso alla metafora delle braccia. Contrariamente a quanto solitamente si è soliti sostenere, il fascismo nella sua prima fase fu una forza ispirata in ambito economico dagli stessi principi del liberismo. La politica antistatalista del fascismo fu annunciata da Mussolini nel suo primo discorso alla Camera, il 21 giugno 1925. “Lo Stato”, disse Mussolini, “è simile al gigante Briareo, che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne novantacinque; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica. Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell’attività privata dell’individuo. Se voi volete salvare lo Stato, dovete abolire lo Stato collettivista, così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra, e ritornare allo Stato manchesteriano.”


[5] «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!», Vangelo di Marco (2, 24).


[6] La ricetta economico-politica a cui è ricorso il Fmi dagli anni ’70 fino ad oggi, ed i cui risultati in termini di riduzione dei tenori di vita reale delle popolazioni interessate sono oramai sotto l’evidenza di tutti – tanta è la loro gravità – passa per la riduzione della spesa pubblica con tagli alla sanità, all’istruzione, alla previdenza ed assistenza, all’infrastrutturazione ed all’industria in generale; per la riduzione delle importazioni; per l’ampliamento dell’esportazioni; per l’apertura del mercato dei capitali.


[7] Il concetto di densità demografica relativa potenziale è di Lyndon LaRouche, ed è così spiegabile.

Una società che funziona bene produce i mezzi di sussistenza per l’intera popolazione e per la sua crescita. Quindi, in una prima approssimazione, l’economia è in crescita quando consente un aumento demografico per unità di territorio. E questo dev’essere misurato relativamente a quel territorio ed altre circostanze naturali. Un altro aspetto molto importante è che questa “forza” economica non sia misurata direttamente nel suo corrispettivo demografico, ma nella sua capacità potenziale di sostenere economicamente una espansione demografica maggiore di quella effettiva. Pertanto la definizione di LaRouche è densità demografica potenziale relativa. Questa maggiore “potenzialità” dipende ovviamente dall’aumento della vita media della popolazione e dal suo livello di istruzione che le consente di sviluppare ed impiegare tecnologie nuove sempre più produttive.

Quindi un’economia che si sviluppa è caratterizzata da un aumento della capacità di sostenere una crescita demografica che è maggiore dell’aumento effettivo della popolazione che si registra in quell’economia.


[8] “Che ogni fusione – quale che sia e comunque avvenga – se non possiede la natura di ciò che è misura e di ciò che è proporzione distrugge di necessità gli elementi che vi sono mescolati e se stessa prima di tutto: e non si tratta di fusione, ma di una congerie non veramente mescolata tale da diventare ogni volta una vera e propria sventura per coloro che la posseggono”, Platone, Filebo, 64d-64e.


[9] Facendo ricorso alla ricostruzione del biogeochimico russo Vladimir Vernadsky, è come se il dominio noetico (quello dell’uomo), venisse a ritrovarsi alla mercè del dominio biotico (quello della biosfera). In effetti di situazioni di questo genere l’umanità ne ha attraversate. Inutile ricordare quella che si sviluppò tra il tredicesimo ed il quattordicesimo secolo, fase di passaggio dall’età medioevale a quella moderna, durante la quale lo stato di abbrutimento a cui era costretta la maggior parte della popolazione, alla stregua di asini da soma a cui era riconosciuto nella migliore delle ipotesi il solo diritto alla protezione da parte della Signoria, vide il dimezzarsi della popolazione europea a causa dell’aumento delle temperature, la conseguente aridità delle terre, lo scarseggiare dei cibi, il proliferare di malattie, lo scoppiare di guerre tra i popoli.

Un processo simile di sopraffazione dell’uomo da parte della natura, anche se di minor portata, lo si è avuto con l’evento catastrofico dello “Tsunami”. Non ci si confonda: non si può affrontare la questione inquadrandola come una sconfitta dell’uomo a cospetto della ben più forte natura. Si è trattato invece della sconfitta di una certa cultura che ha imposto a gran parte della popolazione mondiale tenori di vita ridotti rispetto a quelli che lo stato della scienza umana può consentire. Quell’evento naturale se si fosse verificato in un Paese del cosiddetto primo mondo, non avrebbe provocato neanche un centesimo delle vittime fatte nel sud-est asiatico.


[10] Martedì 20 febbraio scorso, alla trasmissione Ballarò, un professore di economia dell’università di Torino, intervenendo a proposito della importante questione dei treni ad alta velocità (Tav), si pronunciava in proposito, definendo l’operazione come un mero costo per lo Stato. L’attuale sistema culturale, proprio perché aggrovigliatosi nelle maglie del formalismo (farisaico direi), non riesce a fare i conti con ciò che fa parte del regno dell’incommensurabile, ma che non per questo può essere considerato non utile. Secondo l’approccio di quel professore, infatti, nessuna infrastruttura stradale, scuola od ospedale, dovrebbe essere costruita. Se Franklin Roosevelt o John Kennedy non avessero proceduto a quelle esorbitanti operazioni, dal punto di vista finanziario, dell’infrastrutturazione della valle del Tennessee, e del progetto Apollo, le incalcolabili ricadute in termini di arricchimento dei tenori di vita della popolazione statunitense, ma anche mondiale, non vi sarebbero mai state.


[11] A quell’anno risalgono i primi interventi liberalizzatori in ambito locativo.