Il fenomeno dell’immigrazione sta diventando il tema centrale del dibattito politico in Europa, anche a causa della campagna per le elezioni europee, di fatto già cominciata. La strategia delle élite dominanti sembra essere quella di polarizzare le fazioni tra due narrazioni e “soluzioni”, entrambe false, in modo da controllare il risultato del voto.
Così, di fronte ad un’escalation dell’arrivo di migranti irregolari dal Mediterraneo, si discute se cambiare le regole di Dublino o se tenerle.
La modifica del trattato di Dublino, chiesta dall’Italia e osteggiata da Germania e altri paesi, non risolverebbe ma aggraverebbe il problema. Oggi le regole di Dublino impediscono il cosiddetto “Asylum Shopping”, imponendo che i richiedenti asilo possano farlo solo nel paese di arrivo. Eliminare questa regola allevierebbe la pressione su paesi come l’Italia, ma faciliterebbe ai migranti di raggiungere la meta finale, che sono i paesi dell’Europa centrale, Germania in primis. Avrebbe quindi un effetto “pull” sulla migrazione dal Nord Africa.
Una vera soluzione, un impegno serio a sviluppare l’Africa, è tenuto deliberatamente fuori dal dibattito, a parte vuoti slogan non seguiti da fatti concreti. La prova che l’UE non vuole una soluzione è che, invece di cooperare con l’unico paese che ha investito seriamente in Africa negli ultimi decenni, ovvero la Cina, considera Pechino un avversario e persegue una strategia ostile, il cosiddetto “de-risking”.
Inoltre, la vicenda dell’accordo tra UE e Tunisia, promosso dall’Italia, fa pensare che Bruxelles sia contraria anche a mezze soluzioni. Infatti, sebbene l’accordo, siglato a metà luglio a Tunisi alla presenza della von der Leyen, di Meloni e del premier olandese Mark Rutte, prevedesse un aiuto economico pari a 255 milioni di euro, destinati per metà a finanziare polizia e guardia costiera e per metà al bilancio per le spese correnti, all’inizio di settembre ancora non era stato sborsato un soldo, mentre dal Parlamento Europeo e dall’interno della stessa Commissione si levavano voci critiche.
Tra queste, addirittura quella del vice della von der Leyen, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, quello del “giardino” europeo e della “giungla” del resto de mondo, il quale prendeva la penna e scriveva una lettera al collega Olivér Vàrhelyi, Commissario per l’Allargamento e la Politica di Vicinato, in cui di fatto poneva il veto all’accordo.
La lettera, datata 7 settembre (quindi due mesi dopo l’accordo di luglio), esprimeva “incomprensione” per la “azione unilaterale della Commissione” sull’accordo e “su alcuni contenuti” dello stesso, e annunciava che il Consiglio degli Affari Esteri, presieduto dallo stesso Borrell, “ha deciso di monitorare da vicino l’applicazione del memorandum, poiché molti dei suoi punti rimangono soggetti all’approvazione degli stati membri” (https://twitter.com/gianmicalessin/status/1703291135358087368/photo/2).
Forse non è un caso che cinque giorni dopo, centododici barchini, salpati da Tunisi, hanno riversato oltre 5000 migranti in un solo giorno a Lampedusa, determinando una situazione di emergenza sull’isola. E forse non è nemmeno un caso che altri cinque giorni dopo, il 22 settembre, l’UE ha sbloccato metà dei fondi promessi.
Nel frattempo, la Germania e altri paesi hanno levato gli scudi e annunciato che non accoglieranno migranti sbarcati in Italia.
Il governo italiano farebbe bene a non fare affidamento sulla Commissione e sui partner europei, ma a procedere indipendentemente per difendere i propri interessi. Questi andrebbero articolati facendo tesoro di ben tre protocolli d’intesa che riguardano l’Africa, firmati da tre governi diversi negli ultimi anni:
1. Il Trattato di Amicizia tra Italia e Libia, firmato il 30 agosto 2008, tra l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il leader della Rivoluzione libica Muammar Gheddafi;
2. Il Protocollo d’Intesa (MoU) firmato tra il governo Conte 1 (ma preparato dal governo Gentiloni) e la Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC), il 16 ottobre 2018, per la fattibilità del progetto di trasferimento idrico dal bacino del Congo nel bacino del Lago Ciad (vedi cartina, Transaqua);
3. Il MoU di adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative (Nuova via della Seta) firmato da Giuseppe Conte e Xi Jinping a Roma il 21 marzo 2019.
Col trattato di Amicizia del 2008, l’Italia si impegnava a fornire circa gli stessi fondi che l’UE ha oggi promesso alla Tunisia, 250 milioni di dollari, all’anno per venti anni, per un totale di 5 miliardi, per finanziare “progetti infrastrutturali di base” definiti congiuntamente dalle due parti: https://documenti.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apritelecomando_wai.asp?codice=16pdl0017390.
Il trattato fu seppellito sotto le bombe della NATO, Gheddafi fu assassinato e la Libia ridotta a un cumulo di macerie da dove parte la maggior parte dei migranti africani verso le nostre coste.
Col MoU del 2018, l’Italia si impegnava a co-finanziare lo studio di fattibilità di Transaqua, un grande progetto infrastrutturale idrico, di trasporto e di energia ideato dagli italiani negli anni settanta-ottanta, che porterebbe acqua nel Sahel, ripristinando il Lago Ciad in via di estinzione e creando una vasta zona di produzione agricola e manufatturiera, nonché un’arteria di trasporto viario e idrico nell’Africa centrale e numerosi centri di produzione di energia idroelettrica nel Congo e nella Repubblica Centrafricana: https://www.mase.gov.it/sites/default/files/archivio/allegati/sviluppo_sostenibile/Protocollo_lago_ciad_EN.pdf. Transaqua sarebbe il più grande cantiere del mondo, dando lavoro a centianaia di migliaia di africani che altrimenti tenterebbero la via del Mediterraneo. Gli avvicendamenti a Palazzo Chigi, unite a nefaste influenze anglo-francesi, hanno fatto sì che il MoU rimanesse ad oggi lettera morta.
Col MoU del 2019, Italia e Cina definivano una prospettiva di supporto alle reciproche imprese negli scambi bilaterali e soprattutto di cooperazione nello sviluppo dell’Africa: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Memorandum_Italia-Cina_IT.pdf. Anche qui, gli avvicendamenti di governo, soprattutto col governo filo-atlantista di Mario Draghi, insieme all’emergenza covid, hanno impedito che le potenzialità dell’accordo si esprimessero appieno, anche se si è registrato un aumento degli scambi bilaterali. Oggi il governo Meloni sta subendo pressioni da Bruxelles e da centri atlantisti più o meno occulti affinché non rinnovi l’intesa, in scadenza a dicembre.
Una decisione in tal senso sarebbe gravida di conseguenze negative per l’Italia, prima fra tutte quella di perdere il migliore alleato nella realizzazione degli obiettivi dichiarati dallo stesso governo nel suo “Piano Mattei” per l’Africa. Non solo il MoU va rinnovato, ma Roma dovrebbe creare un gruppo di lavoro bilaterale, identificando e concordando progetti infrastrutturali da sviluppare insieme a Pechino in Africa, a cominciare proprio dal progetto Transaqua. Ricordiamo che nel 2018 fu la più grande impresa d’ingegneria cinese, PowerChina, a mostrare interesse a collaborare con l’Italia su questo progetto. In questa cornice, il Trattato del 2008 con la Libia potrebbe essere un modello per simili trattati trilaterali, tra Italia, Cina e paesi africani.