Oltre alla crisi sanitaria e alla scuola, il governo guidato da Mario Draghi si troverà a dover risolvere tre gravi crisi le cui radici risalgono alle decisioni prese negli anni novanta, quando Mr. Britannia era a capo del Comitato sulle Privatizzazioni. Infatti, la crisi dell’ex Ilva, di Alitalia e di Autostrade sono tutte figlie della decisione di privatizzare l’IRI e svendere imprese produttive, o comunque di interesse nazionale, ad imprenditori privati che, invece di svilupparle o risanarle, le hanno letteralmente saccheggiate incamerando profitti miliardari. La cieca furia ambientalista ha fatto il resto, come nel caso delle acciaierie di Taranto. Ora lo Stato si trova costretto a riprendersi quelle imprese malridotte, accollandosi non solo le spese per il risanamento, ma anche il fardello dei debiti accumulati. A meno che il “distruttore creativo” Mario Draghi non proceda con l’applicare lo sciagurato metodo preannunciato nel rapporto del Gruppo dei Trenta da egli presieduto e illustrato nel dicembre scorso. La ricetta annunciata da Draghi è quella della chiusura degli impianti ritenuti incompatibili con gli standard di neutralità climatica definiti dall’Unione Europea. L’ex Ilva non vi rientrerebbe e quindi, secondo la teoria drago-schumpeteriana, andrebbe chiusa, con buona pace di ventimila famiglie la cui vita dipende dall’acciaieria e dall’industria italiana, che si troverebbe costretta a rivolgersi all’estero per i laminati d’acciaio.

La decisione del TAR della Puglia che ordina la chiusura degli altiforni dell’ex Ilva entro 60 giorni è arrivata il giorno dopo del giuramento del nuovo governo e pone una sfida cruciale. Se il governo non interverrà tempestivamente, dovranno essere avviate le procedure di spegnimento degli altiforni, procedure che ne assicureranno la distruzione irreversibile.

Il leader della Lega Salvini, uno stakeholder del governo Draghi, ha posto un altolà alla chiusura, dichiarando che l’acciaio di Taranto serve per fare le infrastrutture al Sud, tra cui il Ponte di Messina. Salvini può contare sul supporto di oltre 150 accademici che, sotto l’abile regia del prof. Enzo Siviero, hanno sottoscritto un appello, condiviso dai presidenti di Sicilia e Calabria, per la costruzione del Ponte, e sugli elementi a favore dello stesso raccolti dalla Commissione Bilancio della Camera che, tra gli altri, ha ascoltato l’importante testimonianza dell’ingegner Ercole Incalza la scorsa settimana. Il Ponte sullo Stretto è l’unica grande opera veramente cantierabile, ha spiegato Incalza, e quindi con tutti i requisiti per accedere ai fondi del Recovery Fund. Il Ponte e l’Alta Velocità sono le priorità per il Sud, in modo da completare l’anello mancante del corridoio Baltico-Mediterraneo, dopo che sono partiti i lavori per l’altro collegamento a nord, quello del tunnel del Fehmarn Belt tra Danimarca e Germania.

Gretinismo al governo

Tra i ministri del governo Draghi, Roberto Cingolani al “superministero per la transizione ecologica” e Enrico Giovannini al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sono i principali rappresentanti del partito gretino (da Greta Thunberg), quelli dei profeti del catastrofismo climatico.

Cingolani ha pubblicamente suggerito Una strategia per combattere il cambiamento climatico (http://www.scienceonthenet.eu/node/18529), favoleggiando di crescita dei posti di lavoro nel passaggio alle cosiddette “energie rinnovabili”, che in realtà è semplicemente un regresso nel rapporto tra energia prodotta e numero di addetti (GWh pro capite), fino a spingersi a chiedere la riduzione della produzione e dei consumi di carne per ridurre i cambiamenti climatici prodotti dalle flatulenze dei bovini (sic), oltre ad asserire che “il consumo di acqua associato alla produzione di carne è elevatissimo” (ma rapportandolo al solo consumo per la produzione generale di cibo e non al totale dei consumi, comprendente gli usi domestici, industriali, il trattamento dei rifiuti, ecc.) e ad auspicare una novella “istituzione internazionale per il cambiamento climatico analoga all’OMS, di cui si sente oggi fortemente il bisogno”.

Enrico Giovannini, co-fondatore di un’ennesima entità ecologista, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, è ancor più ideologico. Fu lui ad accompagnare Greta a Roma nel 2019, quando la bimba plagiata arringò il Senato sulla prossima fine del mondo. La sua firma compare in calce a un articolo pubblicato sulla rivista Solutions Journal del settembre 2020 e ripubblicato sul sito del Club di Roma, di cui Giovannini è membro esecutivo; l’articolo è un maldestro tentativo di giustificare il nuovo slancio malthusiano del Green New Deal, collegandolo in maniera truffaldina alla proposta di Franklin D. Roosevelt, formulata nel corso del suo ultimo mandato presidenziale, nota come Seconda Carta dei Diritti.

Roosevelt introdusse questa “Carta Economica dei Diritti” avvalendosi di un’espressione usata nel 1762 dal giudice britannico Robert Henley durante il processo Vernon v Bethell: “gli uomini preda della necessità, parlando onestamente, non sono uomini liberi”, e aggiungendo che “un popolo affamato e disoccupato è la sostanza di cui è fatta una dittatura”.

Gli autori presentano la proposta rooseveltiana come preconizzatrice degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, confondendo quella raccolta di genuini diritti (libertà dalla fame e dalla povertà, ecc.) con predicati ideologici (uguaglianza di genere, ecc.) e impegni distopici solennemente assunti (azioni di contrasto al cambiamento climatico), che paiono aver miracolosamente messo d’accordo tutte le nazioni del mondo, senza prendere atto delle contraddizioni o delle incompatibilità tra alcuni degli obiettivi (ad esempio, il ricorso alle cosiddette energie rinnovabili, infatti, non permetterebbe il sostegno della demografia presente e, in proiezione, futura).

Dalla schiettezza insita nella semplicità delle parole usate da Roosevelt, si passa a una verbosa elencazione dei nuovi obiettivi, più astrusi che tecnici (per esempio: “uso di misure di rendicontazione completa per l’internalizzazione delle esternalizzazioni”).

Non preoccupandosi del salto logico e – diremmo – morale tra i punti di Roosevelt e il programma dell’oligarchia finanziaria, gli autori suonano il consueto allarme degli ecologisti nei confronti di futuri disastri; criticano di passaggio il neoliberismo, ma si lasciano scappare un’osservazione conclusiva piuttosto oscura: “La crescita successiva alla seconda guerra mondiale fu assai migliore di un’altra guerra mondiale, in particolare dal momento che il mondo era relativamente vuoto e non sapevamo molto sugli impatti di una crescita non meditata. I tempi, tuttavia, sono cambiati e, come all’epoca della ricostruzione postbellica, abbiamo bisogno di intraprendere una direzione decisamente nuova per creare un mondo migliore”.

Se il buongiorno si vede dal mattino, la squadra di Draghi si preannuncia foriera di una “distruzione creativa” senza precedenti per il nostro Paese.