L’inflazione negli Stati Uniti ha raggiunto il 6,2% in ottobre, riflettendo non solo un aumento rispetto al 5,2% di settembre, ma anche un preoccupante aumento del tasso di crescita. Il segretario al Tesoro Janet Yellen (foto) ha reagito attribuendola alla pandemia. In un certo senso ha ragione, ma solo se si riferisce alla risposta politica alla pandemia.
Infatti, i due principali motori dell’inflazione, l’energia e i veicoli usati, riflettono una scarsità dal lato dell’offerta, superficialmente spiegata come mancanza di capacità produttive, perse queste durante i lockdown. Tuttavia, la speculazione finanziaria ha amplificato gli effetti del meccanismo della domanda e dell’offerta, investendo migliaia di miliardi di dollari in scommesse nei prodotti energetici, mentre è altresì provato il classico accaparramento nel caso dei microchip, che hanno fatto rallentare il settore dell’auto.
Gli speculatori hanno usufruito della vasta liquidità messa a disposizione del sistema finanziario dalla politica delle banche centrali e dei governi. A seguito del crollo del mercato interbancario “repo” alla fine di settembre 2019, il Tesoro USA, la Fed e la BCE hanno pompato oltre 14 mila miliardi di dollari nell’economia, finiti quasi tutti nella speculazione, mentre una piccola parte è andata a sostenere i consumi – cosa necessaria per le famiglie – e niente negli investimenti. Non è stato creato alcun posto di lavoro produttivo da quando la Fed ha iniziato il Quantitative Easing n. 5. L’unica legge che avrebbe potuto farlo, nei settori delle costruzioni e dell’engineering, e cioè la famosa “legge trasversale per le infrastrutture”, è stata deliberatamente rinviata dalla maggioranza democratica al Congresso, per cercare di ottenere prima 3,5 mila miliardi in più di “aiuti alle famiglie”.
Il risultato è che, oltre alla leva offerta agli speculatori nelle commodities, il deficit commerciale USA è raddoppiato in un anno: dai 40 miliardi del settembre 2020 agli 80 miliardi di quest’anno. Le famiglie americane hanno speso i soldi a disposizione per acquistare beni che, a causa della deindustrializzazione, gli USA non producono più e devono quindi essere importati.
Ciò spiega anche il collasso dei trasporti marittimi sulla costa occidentale. Marine Exchange scrive che il 9 novembre c’erano 168 navi di ogni tipo in attesa di scaricare, 103 delle quali “alla fonda o in giro” e il resto nei porti. Le portacontainer erano 111. A metà settembre se ne contavano 70, e il 21 ottobre centosette, record poi superato il 9 novembre.
Secondo un resoconto dettagliato fornito da un camionista di TIR postato il 27 ottobre da Ryan Johnson e ripreso da Zero Hedge, la “scarsità di camionisti” al servizio dei noli marittimi non si limita a quei porti, ma è diffusa nel Paese. La maggior parte delle compagnie di trasporti su gomma e dei camionisti, ha scritto, “evitano i porti come la peste” perché il tempo non remunerato perso nell’attesa nei porti potrebbe portarli al fallimento. L’esperto camionista punta il dito sulla piaga: la mancanza di infrastrutture. In quasi tutti i porti, dice, c’è una sola gru per ogni cinquanta autocarri e poiché le rotaie quasi non esistono, tutto deve essere caricato su gomma. Il messaggio del nostro camionista è: l’America non ha le infrastrutture di trasporto per le proprie merci.