Sono 45 milioni gli esseri umani sull’orlo della fame, tre milioni in più rispetto allo scorso anno, secondo una dichiarazione d’emergenza emessa l’8 novembre dal Programma Alimentare Mondiale (WFP). Due giorni prima il direttore del WFP, David Beasley, si è recato in missione esplorativa in Afghanistan, dove ha ammonito che “è peggio di quanto si possa immaginare… infatti assistiamo alla peggiore crisi umanitaria nel mondo. Il novantacinque per cento della popolazione non ha cibo a sufficienza. I prossimi sei mesi saranno catastrofici. Sarà l’inferno”.
Nelle stesse ore, lo show andato in scena a Glasgow col nome di COP26 entrava nella seconda settimana con allarmistici richiami a mettere al bando industria e agricoltura moderna per impedire un leggero aumento nelle emissioni di CO2, garantendo così la riduzione della popolazione mondiale. La “Dichiarazione di Glasgow sul Cibo e sul Clima” sostiene che gli attuali sistemi di produzione del cibo siano responsabili del 30% di tutti i gas serra mondiali e che debbano quindi diventare più “sostenibili”. Sconfiggere la fame nel mondo e fermare l’impennata dei prezzi dell’energia e del cibo non rientra tra le preoccupazioni degli irriducibili malthusiani e dei banchieri riuniti in Scozia.
Inoltre, nell’ambito della sessione sulle foreste e l’uso del suolo, il Dipartimento di Stato USA ha appoggiato otto iniziative internazionali che mirano a sequestrare vaste aree di terra e acqua per vietarle all’agricoltura, alla pesca e ad altre attività umane e preservare così la cosiddetta “natura”. Tra le otto iniziative, una è rivolta al cuore dell’Africa, a preservare le foreste e le torbiere del Congo e mira chiaramente a sabotare Transaqua (foto) ed altri progetti infrastrutturali.
L’Indonesia ha firmato la dichiarazione, per poi chiarire, il giorno successivo, che avrebbe continuato a sfruttare le foreste pluviali, perché sono importanti per la propria economia. Numerose altre nazioni emergenti si sono rifiutate di accettare i dettami occidentali sulla “mitigazione” del clima e il “colonialismo del carbonio”. Il gruppo dei ventiquattro “Paesi emergenti affini” (che comprende India, Cina, Indonesia e Venezuela), che rifiuta l’ingiusto fardello della “neutralità” delle emissioni addossato alle nazioni in via di sviluppo, si è riunito ai margini del vertice e ha ricordato ai Paesi ricchi che non hanno ancora concesso i 100 miliardi di dollari di “aiuti per il clima” promessi nel 2009.
Il 4 novembre, il quotidiano cinese paragovernativo Global Times ha pubblicato un editoriale in cui si esortano i Paesi emergenti a combattere la povertà e la fame, prima di buttarsi a capofitto nella “protezione del clima”. L’editoriale, non firmato, denuncia le pressioni da parte dei Paesi occidentali che “hanno usato combustibili fossili per decenni o più, per godere dei benefici di alti livelli di vita” e che ora non vogliono che il resto del mondo raggiunga lo stesso obiettivo. L’editoriale si rivolge in particolare all’India, consigliando di non impegnarsi in obiettivi climatici che non può raggiungere senza sacrificare la vita dei propri cittadini.