Sono diverse le concause della tragedia di Genova, ma la principale ha un nome: Britannia (foto). Fu sul panfilo della Regina Elisabetta, il 2 giugno 1992, che furono prese le decisioni che portarono alle dissennate privatizzazioni degli anni successivi, guidate da due personaggi che quel giorno erano sul panfilo di Sua Maestà britannica: Beniamino Andreatta e Mario Draghi. Il primo fu responsabile della liquidazione dell’IRI, decisa a tavolino con l’accordo Andreatta-Van Miert, e il secondo fu messo a capo del Comitato Privatizzazioni da dove, per un decennio, diresse la svendita degli asset bancari e industriali prima di diventare, nell’ordine, manager di Goldman Sachs, governatore di Bankitalia e presidente della BCE.

Sarà l’inchiesta a stabilire l’esatta dinamica del crollo del Ponte Morandi, ma ormai sembra certo che sia stato uno strallo a cedere. Proprio quello la cui sostituzione la concessionaria Autostrade per l’Italia aveva appaltato con procedura d’urgenza lo scorso maggio, decidendo però di far partire i lavori solo dopo l’estate. Perché quel ritardo? Forse per non perdere l’incasso dei picchi di traffico del periodo delle vacanze estive?

Se così fosse, la responsabilità dell’impresa che fa capo alla famiglia Benetton sarebbe schiacciante. Certo è che un concessionario pubblico avrebbe probabilmente anteposto la sicurezza degli utenti alle prospettive di guadagno. E invece anche dopo il crollo c’è stato qualcuno che si è preoccupato delle perdite degli azionisti.

Il secondo imputato è la politica di austerità e tagli al bilancio che ha fatto crollare gli investimenti pubblici. La rete viaria e le infrastrutture italiane sono vecchie e maltenute. Non si costruisce più dagli anni Ottanta. È tempo di lanciare un vasto programma di ammodernamento e costruzione di nuove infrastrutture viarie e ferroviarie secondo linee strategiche che vadano a innestarsi nel programma cinese della Belt and Road (Nuova Via della Seta). Genova è un caso emblematico: scelta come uno dei terminali della Via della Seta Marittima, la città con il suo porto ha aderito con entusiasmo a questa prospettiva, affidando le speranze di un rilancio economico al potenziamento del porto e soprattutto delle infrastrutture retrostanti. Il crollo del Ponte Morandi renderà inutilizzabile la A10 tagliando i collegamenti del porto per lunghi mesi.

E questo ci porta al terzo imputato: gli ambientalisti. La famosa “Gronda”, l’anello autostradale che avrebbe dovuto alleggerire il traffico sul ponte Morandi – forse impedendone il crollo – è stata bloccata da dieci anni per l’opposizione ambientalista cavalcata dal partito democratico e dai pentastellati. Gli ambientalisti contestano anche il Terzo Valico, il collegamento ferroviario veloce e “capace” tra Genova e i Corridoi 3 e 5 delle TEN (Trans European Networks), un’opera essenziale se si vuole fare della “Superba” un terminale della Belt and Road. Il discorso si allarga alla Torino-Lione, senza la quale il Corridoio 3 non decolla e la merce da e verso la Francia rimane su strada.

Il Ponte Morandi era un ponte malato. Gli esperti avevano lanciato l’allarme temendone il crollo, suggerendo metodi di controllo moderni che sembra non siano stati applicati. In una dichiarazione pubblicata sul sito movisol.org, il famoso costruttore e insegnante di ponti Enzo Siviero osserva che “le tecniche di indagine, controllo e monitoraggio, pur essendo largamente utilizzate, necessitano ancora di significative implementazioni”. In una nota rivolta all’EIR, Siviero ha suggerito per la ricostruzione del viadotto sul Polcevere, di demolire ciò che resta del Ponte Morandi e “costruire un ponte strallato ovvero, per motivi ambientali, forse meglio estradossato, in acciaio, utilizzando le fondazioni esistenti. Un progetto più o meno pronto o da adattare lo si trova facilmente. Con la capacità produttiva delle ditte di carpenteria metallica che abbiamo in Italia e con una gestione commissariale forte in 6-8 mesi si potrebbe riaprire”.