di Claudio Celani, Vicepresidente di MoviSol

Gli scandali per corruzione che scoppiano con regolare frequenza ripropongono immancabilmente la cosiddetta questione delle regole, in un dibattito in cui gli aspetti giudiziari si mischiano a quelli politici ed economici.

Nella ricerca della soluzione, non aiuta l’approccio dominante che separa le regole dall’etica.

Alla voce “Etica” dell’Enciclopedia Treccani, si legge: “In senso ampio, quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento (gr. ἦθος) umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate.”

Questa definizione pone un problema: se distinguiamo l’etica dalla politica e dal diritto, ammettiamo la possibilità che ci siano azioni cattive e purtuttavia giuridicamente permesse o politicamente adeguate.

A buon ragione dunque, George Soros ama ripetere che speculando, lui non si pone il problema se stia compiendo un’azione moralmente giusta o riprovevole, in quanto egli non fa altro che “giocare secondo le regole”. Le regole – aggiunge – non le ho scritte io, e quindi non prendetevela con me.

La dottrina economica che ha dettato le regole osservate da Soros sostiene che la speculazione, creando liquidità, fa girare l’economia ed è perciò necessaria al progresso della società. Le crescenti disuguaglianze sociali generate in questo processo sono il prezzo inevitabile da pagare.

Sullo stesso piano, assistiamo da anni all’applicazione di politiche giudicate “adeguate” alle situazioni di crisi, che tuttavia generano danni sociali più ingenti di quelli già provocati dalla crisi stessa. “Abbiamo distrutto il mercato interno”, confessava con una punta di compiacimento un recente Presidente del Consiglio tecnico descrivendo gli effetti della cura “adeguata” da egli somministrata.

Dobbiamo accettare questa triste realtà? E’ giusto che l’etica sia divorziata dall’economia per permettere la tranquilla applicazione delle ricette imposte dalle ferree leggi matematiche del libero mercato?

In realtà, nessuna dottrina economica è sganciata dall’etica. Quella liberista, in particolare, si basa su una scelta etica ben precisa, esposta dal suo teorico, Adam Smith, nel saggio “Teoria dei Sentimenti Morali”. In un famoso passaggio, Smith afferma:

“La natura (…) ci ha diretto per mezzo di istinti originali e immediati. La fame, la sete, l’amore del piacere e il timore del dolore ci spingono ad applicare questi mezzi fini a se stessi e senza alcuna considerazione della loro tendenza a quei fini benefici che il grande Direttore della natura intendeva con essi produrre.”

Il calcolo edonistico di Smith – segui i tuoi istinti e non badare alle conseguenze – è il principio morale alla base della cosiddetta economia di mercato. Quante volte abbiamo sentito illustri economisti ripetere che gli “animal instincts”, la ricerca del piacere e la fuga dal dolore, determinano le scelte economiche individuali, poi composte dalla “mano invisibile” in un beneficio per la società?

In realtà, la teoria di Smith era ed è funzionale a un modello di società oligarchico, in cui la manipolazione degli istinti delle masse garantisce l’esercizio del potere. Prima di Smith, ciò era stato espresso in modo più franco e brutale da Bernard de Mandeville nella sua famosa “Favola delle Api – Vizi privati e pubbliche virtù”. Per chi non conosce la favola di Mandeville, la riassumiamo.

Viene descritto un alveare, metafora della società, in cui le api vivono operose e in armonia, replicando tutti i mestieri della società umana. Tuttavia, le api sono insoddisfatte. Soffrono perché la società è ingiusta: c’è chi sgobba e chi fa sgobbare gli altri. Inoltre, non c’è ape che non truffi, inganni e rubi per arricchirsi a scapito delle altre. “Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità”, nota Mandeville. “Era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtú, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i piú scellerati facevano qualcosa per il bene comune.”

A un certo punto, però, Giove decide di ascoltare il grido di giustizia che si leva dai membri dell’alveare e decreta che da ora in poi siano tutti onesti. Di colpo scompare l’avidità e tutte le attività da essa giustificate; cessa la ricerca dell’abbondanza, crollano i prezzi delle merci e delle case, dilaga la disoccupazione ecc. La morale è : “Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi.”

Per inciso, è curioso che Mandeville annoveri “i cavalieri d’industria” tra “i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini”. Più che il manifesto del capitalismo, sembra di leggere il manifesto di Karl Marx.

L’etica di Mandeville e Adam Smith, che considera l’uomo al pari degli animali, non solo è da aborrire, ma è incontestabilmente sbagliata dal punto di vista economico. La teoria di Smith non può funzionare, perché nega la fonte della produttività: la differenza fondamentale tra l’uomo e gli animali.

L’uomo, a dispetto dell’etica smithiana, è l’unico essere dotato di creatività. Egli è in grado di scoprire le leggi dell’universo fisico e di applicarle, nella forma di tecnologia, per l’avanzamento della propria specie. Nel far ciò, egli non è spinto dagli istinti ma dalla forza della ragione, dalla passione per la conoscenza e dall’amore per il prossimo.

Questo principio fondamentale è la base etica di un sistema opposto a quello di Adam Smith, antico come il mito di Prometeo, ma le cui radici moderne affondano anch’esse nel XVIII secolo, noto come il “Sistema Americano di Economia Politica”. Il Sistema Americano cominciò a svilupparsi già nella Massachusetts Bay Colony, ma fu codificato dal primo segretario al Tesoro americano, Alexander Hamilton. Il suo elemento distintivo è l’uso del credito pubblico per promuovere la crescita dell’economia improntata allo sviluppo scientifico e tecnologico. Applicando questo sistema, prima con Hamilton, poi con Lincoln, infine con Roosevelt, gli Stati Uniti sono diventati la prima potenza economica mondiale; quando l’hanno scartato, a favore del sistema di Adam Smith, hanno conosciuto il declino e le crisi epocali.

Oggi, il Sistema Americano è rappresentato dall’economista Lyndon LaRouche, principale sostenitore di una riforma “rooseveltiana” dell’economia americana e mondiale. LaRouche considera l’economia come una “piattaforma” la cui produttività è definita dal livello di avanzamento tecnologico. Poiché la popolazione cresce, una piattaforma produttiva caratterizzata da una certa tecnologia tende a esaurire le risorse definite da quella tecnologia. Ergo, compito dei governi delle nazioni è garantire che si mobilitino investimenti sufficienti a sviluppare una piattaforma a tecnologia più avanzata che definisca nuove, più abbondanti risorse.

In questo processo l’umanità assolve alla sua funzione naturale, che non è contrapposta alla natura fisica ma inserita in essa. Essa aumenta la densità del flusso energetico della biosfera e del sistema solare stesso, senza porre limiti alla sua presenza nell’universo. In questo contesto, LaRouche attribuisce grande importanza al programma spaziale cinese, che mira a stabilire una colonia lunare per l’estrazione di Elio-3, un isotopo che alimenterebbe i reattori a fusione nucleare della seconda generazione. Stiamo parlando di una tecnologia che ancora non esiste, e che molti addirittura ritengono utopistica, ma è un fatto che la Cina persegua questo programma a lungo termine e che esso funga già da volano scientifico-tecnologico per l’intera economia cinese.

LaRouche auspica che, invece di alimentare contrapposizioni, l’Occidente instauri un sistema di cooperazione con la Cina e gli altri paesi dei BRICS (la Russia in primo luogo) per perseguire “gli obiettivi comuni dell’umanità”. Egli rivolge una critica feroce all’attuale “governance” transatlantica, colpevole di mantenere in vita un sistema fallito che sprofonda sempre più nella crisi incurante dei drammatici effetti sociali. Rimanere in questo sistema vuol dire inevitabilmente facilitare le spinte che portano al conflitto globale, con esiti inimmaginabili, ammonisce LaRouche.

Che cosa fare? La strada è quella indicata dal Presidente Roosevelt nella prima, grande crisi mondiale, quella degli anni Trenta. Roosevelt non esitò, una volta insediatosi, a gettare letteralmente alle ortiche il sistema che non aveva funzionato, ripristinando il vero sistema americano. Allora, come oggi, una bolla di valori finanziari inesistenti aveva sostituito i valori dell’economia fisica, e gli sforzi di mantenere quei valori fittizi aveva spinto l’economia nel baratro. Roosevelt cambiò registro: introdusse la mano visibile del governo a fare ordine nell’economia. Come prima cosa, mise in riga Wall Street, introducendo una rigida separazione bancaria e garantì solo le banche di credito ordinarie; emise credito pubblico per le grandi opere, dimezzando la disoccupazione in sei mesi. Rimise la persona, il “forgotten man”, al centro dell’economia, introducendo il salario minimo, le 48 ore, la Social Security ecc. ecc.

I critici di Roosevelt sostengono che la sua ricetta non funzionò e che solo la mobilitazione bellica permise agli USA di riavviare completamente l’economia, raggiungendo la piena occupazione. Questi critici nascondono il fatto che Roosevelt incontrò molti ostacoli sul suo cammino, compresa la Corte Suprema, e fu spesso costretto a non poter espandere il bilancio pubblico come voleva. La mobilitazione bellica e i pieni poteri gli consentirono di farlo. Ma se non avesse ricostruito la base industriale, gli Stati Uniti non sarebbero mai stati in grado di effettuare quella mobilitazione e diventare l'”arsenale della pace” che permise agli Alleati di sconfiggere il nazismo.

Ripristinare il credito pubblico è oggi il passaggio indispensabile per una vera etica del capitalismo. Occorre passare da un sistema in cui il denaro è considerato come valore in sé, a un sistema in cui esso diventa strumento per permettere la crescita dei valori reali. Questo significa creare posti di lavoro produttivi per ogni membro attivo della società, in impieghi che rendano la “piattaforma produttiva” dell’economia in grado di ripagare e remunerare abbondantemente il capitale investito. La finanza va imbrigliata e messa in condizione di non interferire nel processo a lungo termine di creazione di capitale fisico, unico in grado di aggiustare veramente i conti.

Una società in cui il dibattito politico, la legislazione, la scuola, i mass media e le istituzioni tutte siano improntate a promuovere queste idee costituisce la migliore garanzia che il rispetto delle regole si radichi nella coscienza del cittadino.

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