Il 6 dicembre, il Corriere della Sera ha rivelato che l’Italia non rinnoverà a scadenza il Memorandum d’Intesa con la Cina del 2019, uscendo quindi dalla Iniziativa Belt and Road. La decisione è stata presa senza consultare il Parlamento e quasi in segreto, con una lettera inviata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani all’ambasciata cinese a Roma. Dopo la fuga di notizie del Corriere, sia Tajani che il Presidente del Consiglio Meloni hanno confermato la notizia ai giornalisti, ma nessun comunicato ufficiale è stato emesso dal governo italiano.
La Meloni aveva più volte detto che la partecipazione alla BRI doveva essere decisa dal Parlamento e invece ha preso una decisione “Nacht und Nebel” (notte e nebbia), come direbbero i tedeschi.
Per giustificare la decisione di non rinnovare il memorandum sulla BRI, Tajani e Meloni hanno sostenuto che il MoU “non avrebbe portato vantaggi” all’Italia.
Questa è una falsità. Come ha dimostrato, infatti, l’autore del Memorandum 2019 ed ex sottosegretario di Stato Michele Geraci (foto), dal 2019 le esportazioni italiane in Cina sono aumentate in percentuale più dei diretti concorrenti Francia e Germania. Gli investimenti diretti cinesi (FDI) in Italia hanno ristagnato, ma questo perché i governi Draghi e Meloni li hanno bloccati, come nel caso del porto di Trieste e con l’introduzione delle varie “golden share”. Inoltre, proprio dopo la firma del Memorandum c’è stato il Covid ed è scorretto fare valutazioni conclusive.
Con la decisione di uscire dalla BRI, l’Italia ha ceduto alle pressioni di Washington e Bruxelles. Lo ha ammesso candidamente il “sicario da scrivania” del Council on Foreign Relations assegnato all’Italia e alla BRI, David Sacks. In un articolo di agosto intitolato “Perché l’Italia si sta ritirando dalla Belt and Road Initiative cinese?” e pubblicato sul sito del CfR, Sacks ha vuotato il sacco. Dopo aver elencato i falsi argomenti, ha scritto: “Più fondamentalmente, il ritiro italiano dalla BRI rifletterebbe la crescente convergenza transatlantica sulla sfida posta dalla Cina. I Paesi europei vedono sempre più la Cina come un rivale piuttosto che come un partner o un concorrente, mentre la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha recentemente sostenuto che ‘il chiaro obiettivo del Partito Comunista Cinese è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro’, indicando la BRI come prova”.
Non tutti i “Paesi europei”, invece, vedono la Cina come un rivale, visto che 14 membri dell’Unione Europea hanno aderito alla BRI. E ancora di più nella NATO: 17 membri dell’Alleanza hanno firmato un memorandum BRI con la Cina (in entrambi i casi senza contare l’Italia).
È vero, l’Italia è il primo membro del G7 ad averlo fatto, ma questo avrebbe dovuto essere un motivo di orgoglio. Come ha documentato l’EIR, l’aspetto più importante del Memorandum BRI era l’impegno di Italia e Cina a cooperare per lo sviluppo dell’Africa. Si trattava di una priorità per l’Italia (e anche per l’UE) a causa del crescente flusso di immigrati clandestini in fuga da guerre e carestie. Dunque, che interesse aveva Roma ad uscire dall’accordo?
Certamente avere l’Italia come Paese del G7 e come importante membro dell’UE nella BRI è stato un segno di prestigio per il Presidente cinese Xi Jinping. Ora l’Italia è il primo – ed unico – Paese al mondo ad uscire dalla BRI. Questo avrà delle conseguenze, più nei fatti che nelle parole.
In una conferenza stampa del 7 dicembre, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha dichiarato, senza commentare direttamente il ritiro dell’Italia, che “la Cina si oppone fermamente ai tentativi di infangare e sabotare la cooperazione della Belt and Road o di fomentare il confronto e la divisione tra blocchi”.
Mentre i media occidentali di tendenza gongolano per il ritiro dell’Italia, i media cinesi riflettono una comprensibile delusione. “Ciò che l’Italia non vuole, la Cina è pronta a darlo a qualcun altro”, ha scritto il canale di notizie online Overseas Talk. “Chi si nasconde dietro questa mossa? Washington, ovviamente”, ha scritto Knews. Il direttore dell’Istituto di ricerca sul Mediterraneo dell’Università di Zhejiang, Ma Xiaolin, interpellato dal quotidiano locale Zhejiang Daily, ha sottolineato che “l’adesione alla Via della Seta è stata fatta sulla base delle origini storiche e culturali che i due Paesi condividono e ha portato enormi benefici all’Italia”. Ma ha definito “inconsistenti” le dichiarazioni sull’inefficacia del progetto, descrivendo l’atteggiamento di Roma come “contraddittorio”. L’Italia ha dimostrato, secondo Ma, di essere semplicemente “succube di Washington”.