Contrariamente alla versione propinata dai principali media sull’esito del G7 a Taormina, il “fallimento” universalmente riconosciuto non è stato di natura politica, bensì storica. Per capirlo, occorre paragonare il comunicato finale del G7 con quello del Belt and Road Forum (BRF) che si era concluso dieci giorni prima a Pechino.

Mentre il comunicato del BRF poneva l’accento sull'”espansione della crescita economica, del commercio e degli investimenti”, sulla “promozione della cooperazione industriale, dell’innovazione scientifica e tecnologica e dell’integrazione e della cooperazione economica regionale”, come pure su “politiche fiscali e tributarie che diano priorità alla crescita e agli investimenti produttivi”, il comunicato del G7 si apriva proclamando “il nostro sforzo comune” per “costruire le fondamenta di una rinnovata fiducia, sia nei confronti dei nostri governi che dei nostri paesi”.

Che i governi del G7 fossero generalmente screditati non è cosa nuova. Né lo è la loro ostinazione a insistere su politiche fallite invece di adottarne una di crescita e investimenti nell’economia reale.

Si confronti l’impegno della Cina in Africa, con investimenti su larga scala in nuove tratte ferroviarie, dighe e altre moderne infrastrutture, con la seconda sessione del G7 di Taormina, alla quale erano stati invitati alcuni leader africani. Benché questo fosse stato presentato come un importante sforzo per promuovere lo sviluppo come solo modo per fermare le migrazioni, non ne è uscito alcunché di concreto.

Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, nella conferenza stampa finale, ha affrontato il tema della regione del Sahel, identificando nell’essiccamento del Lago Ciad una delle ragioni principali dell’impoverimento e degli esodi di massa. Tuttavia, Gentiloni ha omesso di indicare una soluzione, ben sapendo che proprio italiana è l’idea di Transaqua, un grande progetto per costruire un’infrastruttura di trasferimento idrico, trasporti ed energia che ripristinerebbe le dimensioni originali del lago fornendo così le basi di esistenza per trenta milioni di africani.

Insomma, il G7 di Taormina ha ignorato le sfide storiche che si presentano al mondo. Il principale responsabile di questo fallimento sono l’Unione Europea e i suoi membri, vittime e aguzzini al contempo, abbarbicati al “vecchio paradigma” e contrari alla Belt and Road Initiative.

Uno degli aspetti positivi è il rifiuto da parte della delegazione americana di appoggiare la creazione di un Fondo per il Clima, così come era stato deciso alla Conferenza di Parigi. Come i nostri lettori dovrebbero sapere, la caccia alle streghe globale contro le emissioni di CO2 nulla ha a che vedere con il contrasto ai cambiamenti climatici, ma è un’operazione politica: negare il progresso tecnologico ai Paesi in via di sviluppo e imporre una tassa inutile sull’economia reale, che si aggiunge all’austerità fiscale. A dispetto dei neoflagellanti osannati dai media, vale la pena ripetere che i cambiamenti climatici non sono causati dall’uomo ma riflettono cicli naturali, documentati storicamente, del nostro sistema solare e della nostra galassia.

Bontà sua, la dichiarazione finale del G7 prende nota della nuova cooperazione strategica avviata tra gli Stati Uniti e la Russia. Sulla Siria, l’enfasi è posta sulla priorità di colpire l’ISIS e Al Qaeda, senza cenni alla rimozione di Assad, e si menziona positivamente l’accordo di Astana, come pure la disponibilità a collaborare con la Russia per risolvere il conflitto in Siria.