L’11 maggio, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno lanciato un “avvertimento urgente” ai residenti di Rafah ad evacuare immediatamente l’area, perché sarebbe presto diventata una “pericolosa zona di combattimento”, e di recarsi immediatamente nella “zona umanitaria” nell’area costiera di Al Mawasi. Allo stesso modo, ai palestinesi del campo di Jabalia, a nord di Gaza, è stato detto di evacuare verso Gaza City, a nord-ovest. Cosa c’è in queste “zone umanitarie”? Nulla: niente acqua, elettricità, assistenza sanitaria, alloggi, cibo. Eppure, la dichiarazione dell’IDF afferma che gli ordini di trasferimento dei civili sono conformi al diritto internazionale”.
Nelle ultime settimane, circa 1,2 milioni di palestinesi, di cui, secondo l’UNICEF, circa la metà bambini, si sono rifugiati a Rafah. Di questi, oltre 300.000 hanno obbedito agli ordini dell’IDF e abbandonato l’area mentre altre decine di migliaia stanno cercando di farlo. Il governo israeliano ha chiuso i due vaichi d’ingresso al confine, Rafah e Kerem Shalom, più di una settimana fa. Da allora, i portavoce delle organizzazioni umanitarie pubbliche e private hanno lanciato l’allarme. Per sei giorni, l’UNICEF ha riferito che non sono entrati a Gaza né carburante né aiuti umanitari. Ospedali e cliniche hanno dovuto chiudere e il Programma Alimentare Mondiale e l’UNRWA hanno avvertito che non ci sarebbe stato più cibo da distribuire a partire dal 12 maggio, costringendo il governo israeliano a far entrare alcuni convogli.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha nuovamente avvertito che un massiccio attacco di terra a Rafah porterebbe a un “disastro umanitario epico” e renderebbe impossibile per le Nazioni Unite sostenere i civili ora minacciati dalla carestia. Ha ribadito la richiesta di un immediato cessate il fuoco e di un rilascio immediato ed incondizionato di tutti gli ostaggi, nonché “la ripresa dell’ingresso di forniture salvavita – compreso il carburante, disperatamente necessario – attraverso i valichi di Rafah e Kerem Shalom”.
Molti Paesi del Sud globale hanno denunciato l’inconcepibile offensiva contro Rafah e hanno chiesto al Consiglio di sicurezza di intervenire per porvi fine, tra cui Brasile, Indonesia, Arabia Saudita, Cina, Turchia e Sudafrica.
L’unico governo che potrebbe esercitare una pressione sufficiente sul folle governo Netanyahu per fermare la politica di sterminio è quello di Washington. Il Presidente Biden ha finalmente dovuto minacciare di interrompere la spedizione di alcuni armamenti qualora Israele avesse lanciato una “grande” operazione militare contro Rafah. Ma pochi giorni dopo, il Dipartimento di Stato ha pubblicato le sue conclusioni sulla condotta di guerra di Israele e sulle possibili violazioni del diritto umanitario internazionale. Contrariamente a quanto riportato da quasi tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, il rapporto conclude che Israele sta rispettando l’obbligo di consentire l’ingresso dell’assistenza necessaria. Si noti che il sostegno incondizionato ad Israele da parte dei leader del Partito Repubblicano è ancora più scandaloso di quello dell’Amministrazione Biden.
Per questo, si auspica che le proteste si amplifichino negli Stati Uniti e nel mondo. Al di là degli appelli per un immediato cessate il fuoco e per il rilascio degli ostaggi, ciò che è urgentemente necessaria è una prospettiva di sviluppo reciproco per tutta l’Asia sud-occidentale, come quella delineata dal Piano Oasi dello Schiller Institute.
Invitiamo i nostri lettori a sostenere il Piano Oasi e a contribuire a renderlo un’alternativa programmatica ampiamente discussa, firmando su https://schillerinstitute.nationbuilder.com/support_the_larouche_oasis_plan_for_peace_and_development_in_southwest_asia.