Dal 6 agosto abbiamo assistito ad una malriposta schadenfreude per le notizie riguardanti l’economia cinese. Prima la svalutazione, poi i dati sull’8% di caduta delle esportazioni in luglio, il calo più accentuato da quattro mesi. La svalutazione è stata descritta dai media finanziari come se fosse l’Armageddon. Piuttosto, sia i dati commerciali sia il piccolo aggiustamento valutario sono un riflesso della profonda dicotomia dell’economia mondiale.

Nella prima metà del 2015, le esportazioni cinesi negli USA sono scese dell’11,3% rispetto al primo semestre 2014; quelle nell’UE ancora di più: 12,35%, mentre l’export verso il Giappone ha segnato un meno 13%. Si tratta del primo, del secondo e del quarto mercato della Cina.

Il declino riflette più lo stato agonizzante dell’economia europea, americana e giapponese, e del crescente calo del potere d’acquisto dei consumatori EU, USA e del Sol Levante, che non un problema strutturale cinese.

Infatti, di fronte ad una decrescita delle esportazioni verso queste regioni, già manifesta negli ultimi anni, la Cina ha già cominciato a diversificare i mercati. Un dato per tutti è il volume degli scambi bilaterali con le nazioni dell’ASEAN che, secondo un articolo del BRICS Post del 10 agosto, è salito a 840 miliardi (più 8,23% in un anno). Gli scambi con gli altri paesi dei BRICS sono aumentati dal 5 al 15%.

Inoltre, Pechino si è mossa per far crescere il mercato interno. Solo nel primo semestre del 2015 ha investito 43 miliardi di dollari nelle reti ad alta velocità. Questa cifra eccede gli stanziamenti nei trasporti degli USA per un anno intero – di cui comunque per ora solo si parla, ancora non sono legge.

E last but not least, la vera risposta al crollo del mercato transatlantico è la politica cinese della Nuova Via della Seta, che mira a creare nuovi mercati nei paesi in via di sviluppo tramite investimenti infrastrutturali.

La realtà economica nel mondo transatlantico e in Giappone offre un quadro diverso. In Europa, l’attuale crescita zero può essere considerato un picco post-2008, dal quale sta scivolando verso il basso. In Giappone, l’Abenomics non è riuscita a riavviare la crescita. Negli Stati Uniti, il Dipartimento del Commercio ha recentemente constatato, in una revisione dei dati, che il PIL è cresciuto solo ad un tasso del 2,2% dal 2012 al 2014, e l’economia sta chiaramente decelerando nel 2015, considerando i redditi delle famiglie, i licenziamenti, il fatturato dei beni durevoli, le ordinazioni industriali e l’export.

Infine, l’aggiustamento monetario della Cina è stato una risposta parziale all’espansione monetaria (QE) della Banca Centrale Europea, che in dodici mesi ha svalutato l’euro del 20% contro il dollaro (e quindi contro lo Yuan che al dollaro era agganciato). Se vogliamo parlare di chi fa le guerre valutarie dobbiamo guardare a Francoforte. Il piccolo aggiustamento cinese è una mossa difensiva per contenere la perdita di competitività delle esportazioni, ma la politica economica cinese non si muove su questo piano, come abbiamo spiegato sopra.