8 novembre 2007 – Se gli Stati Uniti avessero preso sul serio il lavoro dei servizi sauditi avrebbero potuto sventare gli attacchi dell’11 settembre 2001. Lo sostiene il principe Bandar bin-Sultan, personaggio che per molti anni è stato ambasciatore saudita a Washington ed attualmente è consigliere di sicurezza nazionale di re Abdullah, in una intervista diffusa il 1 novembre dall’emittente internazionale in lingua araba Al-Arabiya.

Bandar sostiene che lo spionaggio saudita “seguiva attivamente” e “con precisione”, molti dei dirottatori prima degli attacchi alle Torri Gemelle ed al Pentagono. “Se le autorità preposte alla sicurezza USA avessero trattato in maniera più seria e credibile la controparte saudita, ritengo che quello che è accaduto poteva essere evitato”.
Le accuse di Bandar sono state accolte con un certo scetticismo da alcuni personaggi ben collocati negli ambienti interessati. Consultati dall’EIR, questi personaggi hanno fatto notare che fu proprio l’EIR a pubblicare il 29 giugno scorso degli stralci del Rapporto della Commissione 11/9 e altre fonti che confermano come l’allora ambasciatore saudita Bandar aveva fatto arrivare, attraverso due agenti sauditi, più di 50 mila dollari ad alcuni dirottatori dell’11/9. Adesso però le accuse del principe agli USA potrebbero indicare dissapori tra il principe e “il partito della guerra” attorno a Dick Cheney, forse una manovra mirante a scongiurare i nuovi piani di guerra contro l’Iran comprendente lo scontro tra sunniti e sciiti nel Golfo Persico, secondo il piano che fu al centro del viaggio che Cheney compì lo scorso novembre a Riad, e che fu personalmente organizzato dal principe.

A proposito delle affermazioni di Bandar occorre ricordare le parole di LaRouche, in occasione della sua webcast del 10 ottobre, quando disse: “Posso dire di sapere, senz’ombra di dubbio, che l’11/9 fu un’operazione condotta dall’interno. Fu condotta dall’interno per favorire ciò che l’amministrazione Bush rappresenta”. Poco oltre LaRouche affermò: “So di più di quello che dico: con la complicità di personaggi in Arabia Saudita, dell’impero britannico che divide il suo potere con l’Arabia Saudita, attraverso la BAE, quest’operazione fu condotta ai danni degli Stati Uniti l’11 settembre. E da allora ne subiamo le conseguenze. Altri fatti verranno alla luce al momento opportuno”.

Intanto però la patata bollente passa nelle mani di Cheney e Bush: i sauditi passarono informazioni concrete sui rischi di un attacco agli USA, di cui dicono di aver seguito i preparativi “con precisione”? Nel luglio 2001 FBI e CIA diffusero qualche allarme sul conto di Al Quaeda. Il 10 luglio il direttore della CIA George Tenet e il suo addetto al terrorismo Cofer Black incontrarono Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Condy Rice, l’Attorney General John Ashcroft e il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld per metterli al corrente dei propri timori sul rischio Al Qaeda, ma cozzarono contro il muro di gomma, eretto soprattutto dalla Rice.

L’allarme ufficiale fu ribadito nel briefing quotidiano al presidente del 6 agosto, con un’intera sezione intitolata “Bin Laden deciso a colpire negli USA” che denunciava il rischio desumibile da una serie di informazioni di intelligence interno e estero. Ma anche in questo caso la risposta fu zero.

Dunque, con o senza le soffiate di Bandar, certe cose si sapevano. Ma a non volerle sentire fu soprattutto Dick Cheney, allora zar dell’antiterrorismo alla Casa Bianca, titolo conferitogli personalmente dal presidente Bush il 17 maggio 2001, proprio nel momento in cui alla Casa Bianca veniva archiviato nel cassetto più remoto il rapporto della Commissione sulla sicurezza nazionale di Hart-Rudman che per due anni e mezzo aveva studiato la vulnerabilità dell’America agli attacchi terroristici e proponeva un generale adeguamento delle strutture e delle misure di sicurezza nazionale.

Evidentemente le accuse di fonte saudita adesso servono a restituire piena attualità alla questione dell’11 settembre, che è una pessima notizia solo per la cordata di Dick Cheney.

Qualche senatore americano richiede il negoziato con l’Iran


Un gruppo di senatori statunitensi ha preso iniziative contro il rischio di una nuova guerra contro l’Iran, riferendo pubblicamente i timori che serpeggiano tra i parlamentari sulle smanie guerrafondaie del vice presidente Dick Cheney.

In una lettera rivolta direttamente a Bush, il sen. Chuck Hagel ha raccomandato al presidente di intavolare “colloqui diretti, senza condizioni e comprensivi con il governo dell’Iran”. La lettera di Hagel risale al 17 ottobre, ma è stata ottenuta solo di recente dal Washington Note, che l’ha pubblicata sul proprio sito il 1 novembre.

Hagel depreca la situazione di stallo in cui è finita la strategia diplomatica dell’amministrazione, e “a meno che non si effettui un capovolgimento dell’indirizzo strategico attuale, ritengo che ci ritroveremo in una posizione pericolosa e sempre più isolata nei prossimi mesi”. Hagel aggiunge che non riesce a spiegarsi come le iniziative che si prendono attualmente possano effettivamente raggiungere i risultati desiderati.

Nel raccomandare la via del negoziato Hagel spiega che “non occorre aspettare che tutte le altre opzioni diplomatiche siano esaurite prima di considerare la possibilità di colloqui bilaterali”.

Il sito del Washington Note riferisce che la lettera è arrivata anche all’ammiraglio William Fallon, attualmente al vertice del Comando Centrale USA, il quale avrebbe fatto sapere ad Hagel di essere d’accordo sull’opportunità di considerare le opzioni da lui raccomandate.

Il 2 novembre 29 senatori guidati dal democratico James Webb, e tra di essi la Clinton, hanno inviato una lettera a Bush in cui si sottolinea che il presidente non dispone dell’autorità per lanciare una guerra contro l’Iran “senza il consenso del Congresso”. Il giorno prima il sen. Barack Obama aveva presentato una risoluzione in cui afferma che il presidente non ha l’autorità per ricorrere alla forza contro l’Iran.

Il governatore del New Mexico e candidato presidenziale Bill Richardson ha lanciato un appello intitolato “Stop alla follia: no alla guerra con l’Iran” in cui denuncia le tattiche provocatorie dell’amminisrtazione Bush come “metodo collaudato e sperimentato per arrivare ad un’altra guerra che sarebbe un disastro per il Medio Oriente, per gli Stati Uniti e per il mondo”.