Le nazioni europee dovrebbero tagliare le spese sociali per finanziare il debito pubblico, ha affermato il FMI in uno studio presentato alla Casa dell’euro a Bruxelles il 4 novembre. Nei prossimi 15 anni il rapporto medio tra debito e PIL in Europa potrebbe salire al 130% e, se la tendenza dovesse continuare, sarebbero necessari tagli profondi al modello europeo e al contratto sociale, ha affermato il direttore del FMI per l’Europa Alfred Kammer (foto), aggiungendo che “I potenziali risparmi derivanti da cambiamenti radicali sono sostanziali. Ad esempio, se tutti i paesi europei riducessero la quota di finanziamento pubblico nella sanità, nell’istruzione, nelle pensioni, nelle infrastrutture e nella sicurezza energetica alla media OCSE, si potrebbero generare risparmi fino al 3% del PIL in media”.
Due settimane prima, Kammer aveva suggerito di finanziare gli investimenti nella difesa e nell’energia con emissioni di debito comune dell’UE. In un’intervista a Reuters, Kammer aveva affermato: “Raccomandiamo di finanziare questo aumento del bilancio dell’UE con il debito comune”.
In altre parole, il FMI chiede di aumentare la spesa (e il debito) per il riarmo, tagliando al contempo la spesa (e il debito) per il welfare, la sanità, ecc. Queste proposte tradiscono la politica reazionaria del FMI – che è la stessa dell’élite sovranazionale dell’UE – e si commentano da sole, offrendo quindi l’opportunità di smascherare quanto siano completamente errate le premesse di quella politica.
Il FMI parte dal presupposto che il debito pubblico dei principali paesi dell’UE (Germania, Francia, Italia) stia sfuggendo al controllo e sia insostenibile. Il rapporto debito/PIL del 130% è indicato come soglia per una crisi del debito sovrano. Si tratta di un dato del tutto arbitrario, come dimostra l’esempio del Giappone.
Il Giappone ha il rapporto debito/PIL più alto al mondo da decenni. Non solo non ha subito alcuna crisi del debito sovrano, ma la sua economia sta andando relativamente meglio di quella dell’UE. Attualmente, il debito del Giappone è pari al 236% del PIL e le proiezioni di deficit per il 2025 sono del 3,6% (proiezioni di Trading Economics), tutti parametri che nell’UE sarebbero considerati sballati e attiverebbero una procedura di infrazione da parte di Bruxelles.
L’economia giapponese di fatto non cresce, con una previsione dello 0,7% da parte dell’OCSE nel 2025, ma, diversamente dalla maggior parte dei paesi UE, non è trainata dalle esportazioni, che nel 2023 rappresentavano solo il 21,8% del PIL. I suoi principali partner commerciali sono gli Stati Uniti (20%) e la Cina (18%). Il Giappone ha aderito alle sanzioni contro la Russia, ma ciò non gli è costato nulla, poiché le esportazioni giapponesi verso la Russia sono inferiori all’1%. Dopo anni di stagnazione, quest’anno i salari giapponesi sono aumentati più dell’inflazione.
Dal punto di vista finanziario, è fondamentale sapere che: 1. il debito pubblico giapponese è quasi totalmente interno, ovvero di proprietà dei cittadini giapponesi. Di fatto, il debito pubblico è la ricchezza dei cittadini, che viene reinvestita in depositi bancari e immessa nel circuito economico; 2. Si tratta per lo più di debito a medio e lungo termine; 3. Ha costi molto bassi, con un rendimento dell’1,68% sui titoli decennali.
A titolo di confronto, prendiamo la Germania, un tempo locomotiva dell’economia dell’UE e oggi ancora motore, ma verso il basso. L’economia tedesca è in recessione da tre anni. Essendo un’economia trainata dalle esportazioni (42,1% del PIL) e dipendente dalle importazioni di energia, le sanzioni anti-russe le hanno inferto un duro colpo. Il debito pubblico tedesco non è elevato in percentuale rispetto al PIL, con il 62%. Anche con le mega emissioni di debito previste per il riarmo, si prevede che non supererà il 100% nei prossimi anni. Eppure, la Germania paga quasi il doppio del Giappone per rifinanziare il proprio debito.
Questo confronto non ha lo scopo di promuovere il modello giapponese. Vuole solo dimostrare che non è la dimensione nominale del debito pubblico ad essere critica, ma la sua composizione e la sua funzione in relazione all’economia reale. Come affermò Alexander Hamilton, il debito pubblico può essere una benedizione, se usato nel modo giusto, cioè per finanziare investimenti, crescita e welfare. L’UE ha vietato per anni l’indebitamento pubblico per la crescita, attraverso i suoi “parametri di Maastricht”, per fare poi una svolta di 180 gradi nel 2008 per permettere i salvataggi bancari. Recentemente, uno degli ayatollah dell’austerità fiscale, Mario Draghi, ha cambiato idea e ora perora la causa del “debito buono” in contrapposizione al “debito cattivo”. Peccato che Draghi abbia inserito gli investimenti militari e quelli legati al falso allarme climatico nella categoria dei debiti “buoni”. L’avvertimento lanciato dal FMI va nella stessa direzione sbagliata. Se lo si segue, il debito dell’UE diventerà sì, insostenibile. Si tratta del terreno scivoloso che porta alle guerre.