Intervento di Claudio Giudici al convegno nazionale sulle ferrovie presso l’Università di Firenze il 29 aprile 2010

Buongiorno a tutti i presenti.

Ringrazio il sindacato Orsa, la facoltà di Scienze Politiche e Ancora in Marcia, per l’ospitalità offerta a MoviSol, che oggi qui rappresento. MoviSol è l’associazione che in Italia rappresenta il pensiero e la politica dell’economista e politico americano Lyndon LaRouche. LaRouche è l’unico leader che a livello mondiale denuncia da oramai quarant’anni la struttura speculativa dell’attuale sistema economico e finanziario globale, avendo a più fasi previsto le crisi che di volta in volta hanno messo a dura prova la popolazione mondiale, fino ad arrivare alla previsione che fece nella webcast del 25 luglio 2007 in cui previde che nel giro di qualche settimana e mese il sistema economico e finanziario mondiale sarebbe collassato. I mercati finanziari persero più di metà del proprio valore nei mesi successivi.

Oggi, sono chiamato a parlare delle liberalizzazioni e privatizzazioni in Italia.

Qualche giorno fa, una nota radio locale fiorentina, contrapponeva due esponenti politici locali in rappresentanza dei rispettivi opposti schieramenti. Il tema di discussione era quello dei writers, che usano le mura private e pubbliche come delle tavole su cui disegnare. Il rappresentante dell’Amministrazione, nel dar pubblicità al kit “anti-degrado” da fornire ai cittadini, asseriva che in una fase storica come quella attuale, dove il Governo taglia progressivamente i fondi per gli enti pubblici, non si può pensare che le Amministrazioni risolvano i problemi senza un contributo diretto dei cittadini. Il rappresentante dell’opposizione, invece, sosteneva che spettasse all’Amministrazione la risoluzione dei problemi per cui i cittadini contribuiscono attraverso la fiscalità.

Questa è la tipica discussione, dove chi governa si approccia alle questioni in modo fintamente pragmatico, e chi fa opposizione, invece, in modo demagogico. In ogni caso, però, vengono accettati acriticamente i confini del campo di gioco sovraimposto. Il punto è che la soluzione ai problemi in cui in via sistematica si imbattono tutti gli amministratori, si trova proprio sul livello del sovrasistema aprioristicamente accettato, quasi si trattasse di una divinità insuperabile.

Infatti, come notava il rappresentante dell’Amministrazione, il Governo taglia i fondi agli enti locali. Tuttavia, il Governo fa questo perché deve rientrare da un debito pubblico eccessivo e deve rispettare il parametro annuo del rapporto deficit/pil del 3%, come previsto dal “patto di stabilità”. Fondamentalmente però, non è possibile avviare un ciclo economico virtuoso, di crescita dell’economia fisica, e conseguentemente un risanamento strutturale dei conti pubblici, attraverso le politiche del rigore finanziario. Gli oltranzisti del liberismo, sostengono che l’Italia si trovi in queste acque a causa del basso tasso di liberalizzazione introdotto nella sua economia. Ed invece sono proprio le economie maggiormente liberalizzate e finanziarizzate, come quella inglese e quella spagnola, che stanno maggiormente risentendo della crisi economico-finanziaria in atto. Si pensi infatti, che il rapporto debito pubblico/pil britannico è passato dal 50% al 60% in un solo anno. Questo valore, raggiungerebbe il 147% se nel debito conteggiassimo anche i salvataggi delle banche inglesi, attuati dal Governo di Sua Maestà.

Giova invece ricordare, che è attraverso l’ampliamento della spesa pubblica in settori strategici per la crescita economica, come le infrastrutture di base e l’industria ad alta tecnologia, che è possibile rilanciare l’economia, come dimostra in primo luogo tutta la storia degli Stati Uniti d’America, da Alexander Hamilton, passando per John Quincy Adams, Lincoln, Franklin Roosevelt e JFK.

Così, all’interno del sistema dell’Euro, e della globalizzazione finanziaria, non è possibile rilanciare l’economia fisica, perché fondati sull’idea che la produzione di ricchezza passi indiscriminatamente attraverso aggiustamenti di tipo finanziario, piuttosto che dai processi fisico-produttivi che i flussi finanziari devono strategicamente ed efficientemente promuovere. Amministratori locali, primi ministri, sindacati e lavoratori dei più svariati settori, non possono più limitarsi a denunciare i problemi relativi al proprio orticello. Se non emerge un senso comune volto a denunciare i problemi del sovrasistema, l’errato modo di concepire l’economia come strumento di crescita finanziaria, piuttosto che come strumento di crescita dell’economia fisica e del bene comune, staremo soltanto facendo del “teatrino”.

Come ogni settore dell’economia nazionale, anche le ferrovie sono vittime di quel processo di finanziarizzazione che subordina la realtà fisico-economica alle dinamiche speculative. Il processo segue il solito schema:

  • liberalizzazioni-privatizzazioni grazie a cui consentire l’entrata di nuovi player nel settore di riferimento;
  • finanziarizzazione del settore attraverso la creazione di una piramide di strumenti finanziari che trovano la loro ragion d’essere nel sottostante economico-fisico (nel caso in oggetto, le ferrovie).

Dunque, il dato su cui porre l’accento – per quanto possa essere “popolare” – , non è tanto quello per cui dei “capitani coraggiosi” si sostituiscono alla proprietà pubblica di un’azienda, quanto quello meno evidente dell’entrata dei gruppi bancari, che per mantenere in vita la mega bolla speculativa globale, necessitano di trovare sottostante reale su cui creare nuovi strumenti finanziari con cui di volta in volta rifinanziare la bolla. Senza il progressivo mutamento delle leggi nazionali, senza l’entrata degli stati sotto accordi tipo quello dell’Euro o del Wto, la mega bolla speculativa globale sarebbe già scoppiata, con tanto di onoranze funebri per l’attuale sistema economico-finanziario post-Bretton Woods.

In Italia, lo schema sopra delineato, prende le mosse dal famoso incontro del Britannia del 2 giugno 1992, con cui si decise di avviare la creazione di un grande mercato finanziario. Questo è stato possibile, avviando le cosiddette liberalizzazioni e privatizzazioni, che hanno consentito ai grossi gruppi finanziari di impossessarsi dell’industria pubblica e dei settori imprenditoriali ad ampia diffusione, come il settore della distribuzione commerciale. Gli anni ’90 sono stati cruciali per l’avvio di questo processo. In quegli anni, vi fu il venir meno a livello globale del Glass-Steagall standard, che fu introdotto sotto Franklin Roosevelt ed a cui la stessa legge bancaria italiana del 1936 si ispirò, sancendo la separazione tra banche commerciali e banche d’affari, tenendo ben separato il sistema delle banche di raccolta dei depositi, dalla partecipazione diretta alle attività imprenditoriali. Questo processo è stato possibile avviarlo soltanto giustificandolo col sopravvenire di una serie di “inconvenienti”, come l’incompetenza del pubblico nella gestione delle attività economiche. Lo studio che pubblicammo oltre un anno fa, La distruzione dello Stato sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni-privatizzazioni in Italia, dimostra però che così non è. Soprattutto conseguentemente alla invenzione di questa issue, si sono potuti attuare progressivi tagli di bilancio ad ogni attività economica statale. Ed a tal proposito non è porsi la domanda corretta il chiedersi se tutto ciò sia voluto o meno; ciò che conta è che tutto questo è inevitabile nel momento in cui il sistema economico viene orientato ad agevolare le attività speculativo-finanziarie piuttosto che quelle produttive.

Ed infatti, il sistema economico occidentale è andato trasformandosi dalla fine degli anni ’60, in seguito al cambio del paradigma culturale introdotto dalla controrivoluzione del “sesso, droga e rock’n’roll”. La mutata concezione antropologica che ne derivò – non più un uomo produttore dedito al futuro ed alla posterità, ma un essere sensuale, dedito al “vivere per vivere, l’importante è godere” – trasformò il sistema economico da produttivo a consumistico. Un ruolo fondamentale in questa svolta l’hanno giocato l’ideologia ambientalista e quella liberista. La prima partendo da una concezione pessimistica della natura umana, di tipo parassitario, ha contribuito a burocratizzare i sistemi legislativi, tanto da rendere impossibile l’intervento efficace degli amministratori sui territori, bloccando così il continuo ammodernamento infrastrutturale e produttivo della società; la seconda sostituendo all’idea del bene comune come vera stella polare dell’azione politica, la legge della domanda e dell’offerta. Queste ideologie hanno di fatto bloccato la crescita economica favorendo la progressiva “disintegrazione controllata dell’economia”.

Il tutto oggi è dunque funzionale al mantenimento in vita della mega bolla speculativa che a livello globale è andata creandosi dagli anni ’70, e che necessita di fagocitare ogni valore dell’economia reale per rimandare nel tempo la propria esplosione, di cui le ripetute crisi finanziarie, dal primo shock petrolifero fino a quella del 2007, non sono altro che le avvisaglie di una instabile costruzione destinata a crollare su sé stessa.

Questo processo passa per precisi rapporti di causa-effetto che – giova ripeterlo – hanno come loro assioma di riferimento il venir meno di una visione di uomo e di società orientate al lavoro produttivo:

  • il progressivo orientamento della politica economica nazionale, dalla ricerca scientifica e dalle relative applicazioni in campo infrastrutturale ed industriale, alla agevolazione delle attività speculative (finanziarie, immobiliari, di brevetto, ecc.);
  • la riduzione della produttività nazionale nel medio-lungo periodo, tale da rendersi non più consona ai livelli di welfare raggiunti con la precedente capacità produttiva;
  • il progressivo indebitamento nazionale;
  • l’entrata dei privati nei settori divenuti insostenibili;
  • la surrogazione dell’imprenditore col banchiere nella gestione di ogni attività economica;
  • il crollo del sistema economico divenuto progressivamente esclusivamente speculativo ed anti-produttivo.

Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana:

  • l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito;
  • gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino;
  • l’attacco alla lira ed alle altre valute europee da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME).

Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”. In quello studio, inviato ad alcuni organi di stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani, rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema. Oggetto di discussione: le privatizzazioni. Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “Britannia”.

Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la prima fase si occupò della svendita dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico.

Se al livello dell’economia nazionale l'”Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità, pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno. Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

Le privatizzazioni in Italia dal 1992

Per quale motivo agli inizi degli anni ’90 il tema principale della politica italiana divenne “privatizzare la pubblica impresa”? Inizialmente la motivazione addotta era:

  1. il forte debito pubblico e dunque la necessità di ridurlo. Gli interessi negativi che su di questo maturavano, rappresentavano (ed ancor oggi rappresentano) un gravoso peso per l’economia del nostro Paese. Tuttavia si consideri che dalle privatizzazioni il capitale racimolato fu, tra il ’92 ed il 2000, di 198.000 miliardi di lire. Il debito pubblico italiano nel 2000 era di 2.500.000 di miliardi di lire. Il debito pubblico dunque è stato ridotto appena del 7,92%. Tuttavia quel “ridotto” non corrisponde a verità se si considera che tra le aziende pubbliche vendute vi erano vere e proprie perle del capitalismo italiano (Comit, Credit, IMI, ma anche Eni, Enel, Telecom). Per cui se nell’immediato si sono avute delle entrate, fra l’altro irrisorie, per il futuro le scelte politiche hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale dell’economia pubblica nazionale e del sistema di welfare che in parte si reggeva su essa.

  2. Non risultando credibile la prima motivazione addotta alla “necessità” del processo di liberalizzazione-privatizzazione che si intendeva avviare, la motivazione ufficiale a giustificazione delle privatizzazioni divenne successivamente quella di favorire un azionariato diffuso. Tuttavia anch’essa cadde di fronte alla realtà dei fatti.



    “Le privatizzazioni industriali realizzate con acquirenti italiani si sono caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli investitori (o loro ‘cordate’) e per il residuo sul mercato; relativamente agli acquirenti esteri, invece, la quota dei singoli è stata del 71% e quella del mercato del 29%”.



    Si può dunque rilevare immediatamente come il controllo dei cespiti industriali sia sostanzialmente passato dall’operatore pubblico a quello privato. La diffusione tra i piccoli risparmiatori ha riguardato soltanto un terzo del capitale sociale immesso sul mercato. Per cui non può reggere la tesi per cui lo scopo primario delle privatizzazioni fosse quello di attuare un passaggio dalla mano pubblica al pubblico risparmio. Anche questa seconda motivazione si dimostrò palesemente contrastare con la realtà dei fatti.


  3. L’ultima giustificazione ufficiale alle privatizzazioni divenne allora quella di consentire il rafforzamento della grande industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale, al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali. A questo riguardo i casi Eni e Telecom sono sintomatici del fatto che pure queste motivazioni siano state pretestuose e mendaci. Eni per esempio dal ’92 al ’96 ha ridotto il personale del 33,5%, rendendo più inefficiente la gestione produttiva. A fronte di una riduzione dell’1,9% del costo del lavoro, i costi operativi sono comunque aumentati passando dal 72,6% al 73% dei ricavi. Anche tutte le altre aziende privatizzate hanno proceduto a tagli occupazionali e gli assetti produttivi, che già sotto la gestione pubblica erano molto efficienti, non ne hanno tratto giovamento di sorta. “All’incirca, metà delle imprese ha registrato un miglioramento e metà un peggioramento o una variazione pressoché nulla.”

Le privatizzazioni italiane che vanno dal 1991 al 2000 sono caratterizzate dal fatto che pur passando sotto ben dieci Governi, sono però state tecnicamente guidate da un’unica figura: l’attuale governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, direttore generale del Tesoro fino al 2001.

Già “nel periodo 1991-1999, l’economia italiana ha registrato uno sviluppo più contenuto di quello medio dei Paesi Ocse”. Tale differenziale di crescita, come è noto, persiste ancora oggi. Si può poi affermare che la capacità di crescita economica del nostro Paese si è ridotta del 67% dal 1991. In oltre un quindicennio di politiche liberiste, la capacità di crescita della produzione industriale italiana è diminuita di due terzi. A smentita delle tesi liberiste, questa capacità di crescita è stata in ripresa dall’inizio del 2002 alla fine del 2006, quando le politiche di spesa, soprattutto per infrastrutture, sono state più espansive, mentre è precipitata nel 2007, quando la politica del rigorismo finanziario ha ripreso piede.

“Le operazioni del Tesoro italiano hanno contraddistinto dei massimi a livello mondiale: la prima tranche dell’ENEL nel 1999 ha segnato il record per un’IPO sui mercati occidentali, mentre la vendita della Telecom Italia è stata la maggiore OPV [offerta pubblica di vendita] mondiale che ha condotto ad una privatizzazione”.

Si può dunque tranquillamente affermare che l’approccio seguito per l’attuazione di questo processo di liberalizzazioni-privatizzazioni, sia stato radicale. I governi italiani – ma forse è più corretto dire Mario Draghi – hanno dimostrato una capacità a saper raggiungere l’obiettivo senza tanti fronzoli. Una vera e propria terapia d’urto. Se con la stessa decisione con cui si è lavorato per portare dalla mano pubblica (o da moltissimi ma piccoli portatori d’interesse) a pochissime mani private, una fetta importantissima del p.i.l., si lavorasse per ridare sviluppo all’economia nazionale e ridare esecuzione all’art. 3, 2o comma della Costituzione, la vita dei cittadini italiani non avrebbe niente a che fare con l’attuale no future generation.

Che cosa propone il nostro movimento, che cosa propone LaRouche

Noi proponiamo tre passi per uscire dalla crisi globale:

  1. La riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario globale
  2. Un nuovo sistema monetario e finanziario
  3. Il lancio di progetti infrastrutturali a livello globale

Il tutto dovrà essere avviato dalle quattro potenze: Stati Uniti, Cina, Russia, ed India, che rappresentano la massa critica a cui poi si aggiungeranno gli altri Stati.

  1. Il primo punto, quello della riorganizzazione fallimentare consiste nell’attuazione di una vera e propria procedura fallimentare. Un qualcosa che in Italia conosciamo bene se pensiamo al caso Parmalat.
    Ciò di cui abbiamo bisogno affinché i redditi reali delle persone possano ricominciare a crescere, è eliminare tutti i titoli tossici che rappresentano la cinghia di forza della speculazione sull’economia reale, e cestinarli. I titoli invece rappresentativi dell’economia reale, quelli dovrebbero essere utilizzati per rifondare il sistema.

  2. Il secondo passo consisterebbe nel ricreare un nuovo sistema monetario a cambi fissi invece che fluttuanti (com’è dall’agosto del ’71) di modo da rendere difficili fin dall’origine le speculazioni. Questi cambi andrebbero determinati sulla base di accordi multilaterali tra le nazioni, invece che farli determinare dalla speculazione, come avviene oggi. E’ questa la proposta di Nuova Bretton Woods di cui parlò ripetutamente il ministro Tremonti fin dalla campagna elettorale per le politiche del 2008.



    A tutto ciò s’aggiungono regole per la circolazione dei capitali, il passaggio dal sistema monetarista centrato sulle banche centrali, come l’attuale, ad un sistema creditizio centrato su banche nazionali governative. Queste dovranno esser dotate di un doppio sportello creditizio: uno a tasso di mercato per spesa corrente e consumi; l’altro a tasso agevolato per la spesa in conto capitale.


  3. Il terzo passo è l’avvio di grandi progetti infrastrutturali a livello globale. Il pianeta necessita di importanti infrastrutture.

Qui in occidente, guardiamo anche alla stessa Firenze. A Firenze non vengono fatte infrastrutture da almeno quarant’anni. Il non aver voluto sfruttare il sottosuolo, è causa oggi di gravi disagi per la cittadinanza. Ogni cittadino trascorre circa due ore al giorno in mezzo al traffico, per poter raggiungere e rientrare dal posto di lavoro. Per risolvere questi problemi, dobbiamo anche poter sfruttare il sottosuolo: non solo per una metropolitana, ma anche per sistemi di trasporto merci sotterranei, parcheggi, sistemi di smaltimento rifiuti ad aspirazione (come già presenti a Copenaghen, Lisbona, Barcellona, ed inizialmente pensato anche per Milano per l’Expo 2015). Oltre ad infrastrutture per l’Europa e l’America, anche l’Africa e l’Asia necessitano di interventi: infrastrutture di base (strade, sistemi idrici ed energetici). Per fare tutto ciò abbiamo bisogno di grandi quantitativi energetici. Ovviamente, l’eolico ed il solare non sono delle soluzioni a causa della bassa densità del loro flusso energetico. La soluzione si chiama nucleare se veramente vogliamo elevare il tenore di vita di quella parte della popolazione mondiale destinata ad un modello sociale di sussistenza, o addirittura al genocidio, se crediamo di utilizzare l’Africa come spazio per i pannelli solari con cui poi sostenere energeticamente l’Europa (si pensi al progetto Desertec). Il Desertec è un progetto oligarchico. Piuttosto, si ripensi ad un qualcosa come il progetto Transaqua, che nel 1989 fu progettato dall’Iri, per bonificare intere aree desertiche africane.

Vi ringrazio.