Non ci possono essere più dubbi sul fatto che la politica del governo israeliano sia quella di far morire di fame la popolazione di Gaza e distruggerne i mezzi di sussistenza fino al punto che tutti coloro che non sono ancora morti o moribondi fuggiranno per sempre dalla Striscia. Nella tarda serata del 16 maggio, poco dopo che Trump aveva lasciato il Medio Oriente, le forze di difesa israeliane hanno dato il via alla prima fase dell’offensiva terrestre “Carri di Gedeone”, come Netanyahu aveva annunciato, con l’obiettivo dichiarato di conquistare tutto il territorio e mantenerne il controllo totale. Le poche strutture mediche e i magazzini rimasti sono stati presi di mira in modo deliberato.
Questa offensiva arriva dopo che Israele ha bloccato per oltre settanta giorni la consegna di generi alimentari e aiuti umanitari alla popolazione della striscia e dopo diversi giorni di intensi bombardamenti. Secondo un rapporto del 12 maggio dell’Integrated Food Security Phase Classification, l’intera Striscia di Gaza ha raggiunto il livello 4 di crisi alimentare, ovvero “emergenza”, mentre il 22% della popolazione si trova già al livello più alto, ovvero il livello 5.
Una settimana prima dell’inizio dell’operazione, Netanyahu aveva dichiarato con orgoglio davanti a una commissione della Knesset che “l’unico risultato inevitabile [dell’offensiva] sarà il desiderio dei Gazawi di emigrare fuori dalla Striscia di Gaza”, un obiettivo che non ha nulla a che vedere con la liberazione degli ostaggi o la distruzione di Hamas. Ciononostante, date le proteste di massa, il 19 maggio il governo si è sentito obbligato a consentire l’ingresso nella Striscia di Gaza di alcuni camion carichi di generi alimentari, dopo che Netanyahu aveva detto ai suoi fanatici sostenitori che, se avessero cominciato a circolare “immagini di fame diffusa”, Israele avrebbe perso il sostegno internazionale, compreso quello degli Stati Uniti. E gli Stati Uniti e Israele hanno messo in piedi un’operazione fittizia e privatizzata, la Gaza Humanitarian Foundation, che subentrerà una volta che l’ONU sarà stata cacciata da Gaza.
In un rapporto straziante sulle condizioni a Gaza presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU il 13 maggio, il coordinatore dei soccorsi di emergenza dell’ONU Tom Fletcher ha sfidato i leader mondiali: “Agirete con decisione per impedire il genocidio e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario?”, ha chiesto. Coloro che liquidano come inaffidabili i numerosi avvertimenti lanciati dagli operatori umanitari sul campo e continuano a difendere il “legittimo” diritto di Israele all’autodifesa, forse saranno convinti dalle grida d’allarme lanciate dai leader spagnoli. Al vertice della Lega Araba a Baghdad, il 17 maggio, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha affermato che “la Palestina sta morendo dissanguata davanti ai nostri occhi” e ha proposto che la Corte internazionale di giustizia, che sta esaminando l’accusa di genocidio contro Israele, si pronunci ora sul rispetto da parte di Israele degli obblighi che le incombono in virtù del diritto umanitario.
Josep Borrell, ex capo della diplomazia dell’Unione Europea, pur non essendo un umanista, è stato ancora più esplicito. In un discorso pronunciato il 9 maggio in Spagna, ha accusato Israele di “condurre la più grande operazione di pulizia etnica dalla fine della Seconda guerra mondiale”. Parlando dell’obiettivo di Netanyahu, ha osservato: “Raramente ho sentito il leader di uno Stato delineare così chiaramente un piano che corrisponde alla definizione giuridica di genocidio”.
Eppure, in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti, coloro che si schierano in difesa della popolazione palestinese e denunciano la politica di Netanyahu continuano a essere accusati di antisemitismo e subiscono ritorsioni. Come giudicherà la storia i leader di queste nazioni?