L’incontro del World Economic Forum di quest’anno, a Davos, in Svizzera, è stato decisamente diverso dagli anni precedenti. Il tema principale dei lavori è stato, prevedibilmente, il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, che si è insediato lo stesso giorno dell’apertura del WEF. Lo ha riconosciuto il fondatore della manifestazione Klaus Schwab, presentando Trump il 23 gennaio.
Sul posto, la consueta atmosfera conviviale dei ricchi manager, insieme ai pensatoi, ai politici e alle figure mediatiche che essi finanziano, è stata interrotta dalle notizie sulle decisioni della nuova amministrazione USA annunciate a raffica nei primi giorni della presidenza Trump. L’incertezza non era inaspettata ed era stata trasmessa nel briefing pre-vertice tenuto dal successore di Schwab come presidente del WEF, Borge Brende: “Siamo nel mezzo di due ordini”, ha detto. L’era “post-Guerra Fredda”, in cui la cricca di Davos aveva una presenza dominante in un mondo plasmato dal trionfalismo liberal e dalla globalizzazione, è finita, ha suggerito, “e ora siamo in un periodo indisciplinato perché non sappiamo quale sarà il nuovo ordine”.
La sua cupezza è stata condivisa da Philipp Hildebrand, vicepresidente di BlackRock ed ex governatore della Banca Nazionale Svizzera, che ha dichiarato che i suoi analisti si aspettano “più incertezza e volatilità”. Ha avvertito che l’Europa è “poco competitiva” di fronte alle “forze di trasformazione che plasmano l’economia e a un panorama geopolitico frammentato”.
I principali attori del sistema transatlantico si stanno rendendo conto che il Forum economico mondiale, dopo oltre 50 anni di esistenza, non esercita più il potere di un tempo. Infatti, come sottolineato da Harley Schlanger in un recente articolo per EIR, il raduno di Davos fu lanciato da Klaus Schwab nel 1971, con il nome di European Management Forum, per costruire un consenso sulla “globalizzazione” tra i leader delle multinazionali. Ciò includeva un attacco all’idea di sovranità nazionale come un’idea superata e un impegno per l’emergere di un ordine mondiale sotto la governance dei cartelli aziendali.
Il coordinamento di questo nuovo ordine doveva essere affidato a coloro che il defunto Samuel P. Huntington aveva identificato con il termine “uomo di Davos”, scrive Schlanger. Huntington, noto per la teoria geopolitica dello Scontro di civiltà – che è una versione aggiornata della visione di Thomas Hobbes del mondo come campo di battaglia di “tutti contro tutti” – ha scritto nel 2004 che l’uomo di Davos ha “scarso bisogno di lealtà nazionale, vede i confini nazionali come ostacoli che fortunatamente stanno scomparendo e vede i governi nazionali come residui del passato la cui unica funzione utile è quella di facilitare le operazioni globali dell’élite”.
Si spera che con il crollo dell’ordine neoliberale e l’emergere dei BRICS e del Sud globale, l’“uomo di Davos” sia in via di estinzione.