Hong Kong ha vissuto un’altra giornata di rivolte il 20 ottobre, quando i rivoltosi hanno sfidato apertamente un divieto a manifestare. La polizia li attendeva in forze, ma come è accaduto in precedenza, essi hanno messo a ferro e fuoco parti della città. Due giorni prima v’era stata una grossa manifestazione pacifica che chiedeva la fine delle violenze, ma anche assistenza internazionale e medica per i manifestanti e per monitorare le azioni della polizia, cosa che potrebbe sfidare l’autorità del governo di Hong Kong. La natura pacifica dell’azione indica tuttavia che molte persone, anche se non appoggiano l’autorità, vogliono che finiscano le violenze. Ma sembra che abbiano poco influsso sui gruppi di anarchici che seminano caos e distruzione e ricevono molto sostegno pubblico dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.
La settimana scorsa, non solo la Camera dei Rappresentanti americana ha votato l’Hong Kong Democracy and Human Rights Act, un intervento diretto a sostegno dei manifestanti, ma il senatore repubblicano Ted Cruz, ex candidato presidenziale senza speranze, si è recato di persona a Hong Kong, vestito in nero come i manifestanti, per esprimere il proprio sostegno. Cruz ha dato la colpa al governo centrale per la violenza della polizia, benché Pechino abbia esercitato sin dall’inizio la massima moderazione, pur chiarendo che non tollererà alcuna forma di separatismo o cambiamento della formula “un Paese, due sistemi”.
Nel frattempo l’economia di Hong Kong subisce seri contraccolpi per via della rivolta e sono in pericolo la vita e il sostentamento dei cittadini. Benché il governo locale cerchi il dialogo coi manifestanti, il 16 ottobre la governatrice Carrie Lam (foto) ha dovuto interrompere il proprio discorso al Parlamento perché i cosiddetti filo-democratici all’opposizione le hanno impedito di parlare.
Anche se Pechino ha espresso pieno sostegno agli sforzi del governo di Hong Kong nell’affrontare la crisi, non vi sono indicazioni che stia considerando un intervento dell’esercito. E forse non sarà necessario, in quanto le attività degli estremisti cominciano a stancare la popolazione, anche chi non condivide l’azione del governo.
Se coloro che manipolano la situazione dagli Stati Uniti o dall’Europa credono che la rivolta si estenderà alla Cina, si sbagliano di grosso. Come ha indicato recentemente l’ex sottosegretario di Stato americano Susan Thornton in una lunga intervista al South China Morning Post, gli eventi a Hong Kong hanno provocato una forte reazione nazionalista in Cina. Dato il forte sospetto che vi siano americani dietro ai manifestanti violenti, cresce il sentimento anti-americano nella popolazione cinese e, come dice giustamente la Thornton, questo non è nell’interesse degli Stati Uniti.
Quanto al Presidente Trump, ha indicato di non essere contento del coinvolgimento americano nelle rivolte e potrebbe aver detto alla comunità di intelligence che deve starsene alla larga. Come abbiamo visto con lo scandalo Russiagate, però, gli agenti dell’intelligence americano non danno molto ascolto al Presidente. Chiaramente, il progresso dei colloqui commerciali tra Stati Uniti e Cina potrebbe contribuire a disinnescare la situazione.