Dietro l’ondata di isteria scatenata sui media europei, nelle cancellerie e nelle istituzioni dell’UE dalla proposta di emettere i “minibot” si cela il timore non tanto che l’Italia emetta moneta o debito (categorie aristoteliche che sembra tolgano il sonno a Mario Draghi), ma che il nostro Paese si attrezzi per parare eventuali ricatti della BCE.

I fautori dei “minibot”, tra cui Claudio Borghi, Antonio Maria Rinaldi (nella foto) e Nino Galloni, hanno esaurientemente spiegato che essi non sono né moneta né debito. Per essere moneta, dovrebbero avere corso forzoso, cosa che non hanno. Per essere debito, dovrebbero avere una rendita e una scadenza, cosa che non hanno. I “minibot” sarebbero offerti volontariamente ai creditori dello Stato. Come ha spiegato Antonio Maria Rinaldi in un’intervista con Luca Telese, “è molto semplice, è una partita di giro. Io ho un credito di 10 mila euro. Lo Stato mi dà un buono da 10 mila euro. E io con quello pago le tasse per 10 mila euro. È una cosa civile”.

Tuttavia, gli ideatori dei “minibot” sperano anche che una parte possa essere accettata dai commercianti, dando uno stimolo marginale ma importante alla domanda.

V’è però un altro aspetto di non secondaria importanza. Se il negoziato con la Commissione dell’UE dovesse prendere una brutta piega e si dovesse giungere a una crisi simile a quella del 2011, l’Italia disporrebbe di un potenziale strumento per disinnescare l’arma più temibile dell’avversario, e cioè il taglio della liquidità di emergenza della BCE alle banche. È quanto fece Draghi nel 2015 per spezzare le reni alla Grecia e costringerla ad accettare la Troika. Se guerra fosse, piuttosto che arrendersi l’Italia potrebbe convertire i “minibot” in una vera moneta parallela a corso forzoso e rifornirne le banche.

Al momento è difficile prevedere quale sarà l’esito del negoziato. La commissione uscente ha minacciato la procedura di infrazione, ma si tratta appunto di una commissione in scadenza. Nell’intervista summenzionata, Rinaldi ha spiegato con immagini colorite “che noi non polemizziamo con chi ha gli scatoloni di cartone in mano”. E ha aggiunto: “L’Italia ha bisogno di ripartire con la crescita, non di proseguire con l’austerity. Non importa l’entità del debito, conta il nostro rapporto con il PIL. E noi dobbiamo aumentare il PIL. Per farlo occorrono investimenti, e dunque spesa. Più facile di così!”

Rinaldi ha giustamente fatto notare che nel dibattito europeo aleggia un convitato di pietra: la prossima grande crisi finanziaria. “Quando scoppiò la bolla dei subprime”, ha fatto notare, “nel mondo c’erano 4.800 miliardi di titoli spazzatura”. Oggi “ce ne sono il doppio, 9.600. Questo è un indice reale del fallimento delle politiche comunitarie. Hanno messo la museruola agli Stati, ma la finanza fa quello che vuole”.

Gli stessi temi sono stati affrontati in una sede più solenne dal prof. Paolo Savona alla sua prima uscita da Presidente della Consob. In una lunga e dotta prolusione, Savona ha ricordato che, dopo la crisi del 2008, nulla è stato fatto per risolvere la crisi finanziaria e, in particolare, il problema del debito dei derivati, e ha polemizzato con chi considera il debito pubblico italiano insostenibile.

Citando l’esempio del Giappone, che ha oltre il 200% di debito sul PIL, Savona ha spiegato che non esiste una quota assoluta di insostenibilità, e che questa dipende esclusivamente dalla crescita o dalla mancata crescita del PIL. Al proposito, ha caldeggiato uno shock di investimenti pubblici per 20 miliardi per riavviare l’economia italiana.