di Flavio Tabanelli

I temi trattati in questo editoriale sono ulteriormente sviluppati in questo articolo.

La Camera ha approvato un disegno di legge sulla scuola che, nella sua continuità con le passate “riforme”, ha come vere premesse l’austerità e l’abuso di autorità per imporla.

La Camera e il Senato, in verità, non sono chiamati a cambiare la scuola, ma a delegare il governo a decretare, entro diciotto mesi, su almeno dieci questioni fondamentali (vedi art. 22), senza vincoli di sorta.

Sono promessi soldi, ma con la certezza che i tagli siano superiori.

La vergognosa situazione palesatasi con la sentenza della Corte europea di Giustizia, interpellata sul precariato di decine di migliaia di maestri e docenti, è stata trasformata in un’occasione per ricattare. Assumiamo, ma in cambio dovrete…

Improvvisamente, vanno bene tutti gli strappi e i tagli di personale e delle ore di lezione delle precedenti “riforme” (dei ministri Berlinguer, Moratti e Gelmini), tanto deprecati anche dalla forza politica ora al governo. Anche qui vale il “ce lo chiede l’Europa”. Non potendo servire due padroni, Renzi prosegue l’opera di trasformazione della scuola in azienda mendicante fondi, condendo la proposta con mentalismi vari, fatti per catturare il consenso su qualche dettaglio.

Nonostante l’alta partecipazione allo sciopero del 5 maggio scorso, il suo governo tenta di isolare i sindacati. Infine, Renzi produce una lettera e un cortometraggio (una lezione alla lavagna), per vendere un prodotto differente da quello proposto ai parlamentari.

Questo ddl viene a completamento di un’operazione ventennale di aggressione, che ha già corrotto il mondo della scuola. Il processo si comprende meglio se situato nel generale programma di “disintegrazione controllata dell’economia”, iniziato Paul Volcker, Margaret Thatcher (bis), ecc.

Prima di questa offensiva, fatta sì di tagli ma anche di ingerenze in materia di didattica e pedagogia, l’Italia produceva laureati che andavano “a ruba” nel mondo. Poi è iniziata la stagione del “terrorismo”: non in mancanza di soldi, ma in ossequio a questo progetto di disintegrazione, è stata inventata la “autonomia”, proprio come nello scarica barile del decentramento verso le Regioni. Si è così aperta la forbice tra il finanziamento delle istituzioni scolastiche e le ipocrite richieste di attenzione ai processi educativi.

Nella pratica, però, si è dato a intendere ai docenti che troppe insufficienze li avrebbero bollati come incapaci, che le scuole migliori sarebbero state quelle con pochi bocciati. Il tutto fu condito con la pretesa di oggettività nel processo di valutazione: quindi, via con i test a crocette, che certamente non stimolano il ragionamento e il senso critico.

Art. 33 della Costituzione
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento…

Ora, dopo anni di stravolgimenti, di mancanza di continuità didattica e di coerenza nel processo educativo, ma anche di volontaria subordinazione della libertà di insegnamento e dell’onestà alle logiche contabili, è gioco facile far leva sulle cose che non vanno nella scuola, comprese la scarsa dedizione o le scarse competenze di un imprecisato numero di insegnanti.

Il problema fondamentale della protesta è, per noi, nella timidezza delle proposte alternative. La cosa è assai paradossale, poiché i due nodi di questa battaglia, la questione dei finanziamenti alla cultura e la questione dei contenuti di tale cultura, sono proprio i nodi con cui, in un’Europa medievale la nostra frammentata Italia guidò il Rinascimento dell’umanità e del pensiero.

La battaglia per la scuola è di vitale importanza. Proprio per questo è necessario rovesciare i termini generalmente percepiti: non possiamo permetterci di soccombere, come all’epoca dei nazifascismi, all’uso politico dell’urgenza e della crisi stessa.

Occorre assumere i giusti provvedimenti, senza badare a spese, come facemmo dopo la guerra, oppure quando a fine Ottocento si costruirono edifici scolastici fin nelle frazioni di campagna.

C’è un altro elemento di corruzione contro cui combattere. Se c’è un generale accordo sulla opportunità di maggiori investimenti nella scuola, troppe vittime di una visione contabile della finanza pubblica si arrendono davanti alla parvenza della loro impossibilità finanziaria.

Restaurata la funzione del circolo del credito pubblico e della tassazione, e dell’emissione di moneta finalizzata alla produzione (in queste settimane Draghi ne stampa a valanghe, ma per tenere in piedi la bolla speculativa), la questione sarà agevolmente dimostrata: il problema vero è nella tutela del credito dalla speculazione finanziaria e della sovranità sulle politiche economiche nazionali.

Già nel maggio 2012 (vedi “Nessun sacrificio! Separare le banche e salvare la scuola”) anteponemmo al problema della scuola in sé, quello della centralità in economia dei criteri della Legge Glass-Steagall, e della conseguente tutela della sovranità popolare sul credito produttivo.

Dobbiamo convincere il Senato a respingere non solo questo ddl, ma tutto il quadro politico che lo contiene. Già alla Camera e al Senato sono state presentate da quasi tutti gli schieramenti delle proposte di legge per la separazione bancaria (vedi), e un’altra – “pronta per l’uso” – proviene dalla Regione Toscana (vedi). Perché aspettare nel rispondere in modo strategico alla prepotenza di questo ducetto?

Solo con un impeto di entusiasmo possiamo pensare di incidere in modo epocale e ispirare i senatori al gesto di coraggio che si è reso necessario, ma che deve essere un punto di partenza per un Nuovo Rinascimento.