di Cédric Gougeon, Solidarité et Progrès.

Quando la finanza prende in ostaggio la nostra umanità…


Che cosa accade sul continente di Platone, Shakespeare, Beethoven e Victor Hugo? Da decenni la nostra cultura umanistica va appassendo come una rosa senza nuove primavere. Si torna ovunque a chiedere la pena di morte, si aprono nuovi teatri di guerra e, nella logica del laisser-faire economico, si lascia morire i migranti nell’indifferenza e si tortura il Paese di Socrate e di Omero.

Alcuni lettori accuseranno vaghe “circostanze complesse e costose”, mentre altri faranno cadere la colpa sui “corrotti”. “La colpa, cari cittadini, non è nelle stelle, ma dentro di noi”, risponderebbe sicuramente, e molto seriamente, William Shakespeare.

Non abbiamo forse la nostra parte di responsabilità, nella passiva indifferenza delle nostre azioni quotidiane?

Ci rivolgiamo a tutti coloro che ancora vogliono credere nell’avvenire dell’umanità: è giunto il momento di riconoscere che la nostra sensibilità umana è messa alla prova ogni giorno da ciò che accettiamo di ascoltare, di guardare e di leggere. Se non l’avete ancora capito, qualcuno l’ha capito per voi.

Rifondare la cultura umana

Il ruolo di una cultura rivolta alle sfide dell’umanità non sfuggì a tutti i sopravvissuti della seconda guerra mondiale: nel 1954 un gruppo delegato dal direttore generale dell’UNESCO votò una risoluzione rivolta a valorizzare il ruolo della cultura classica e umanista nell’educazione, e nel miglioramento della vita culturale di ciascun Paese membro dell’UNESCO.

Ecco un estratto di quel documento:

In ciascuna grande civiltà o in ciascun gruppo culturale, un certo ideale umano […], un certo tesoro di testi letterari e di opere d’arte è stato per lungo tempo riconosciuto come il deposito della grandezza dell’uomo e come la testimonianza dei suoi sforzi di piena realizzazione della sua umanità. Queste opere ci liberano dal momentaneo e dal particolare, e offrono un senso di eternità di certi problemi fondamentali.

In generale, l’importanza correntemente riconosciuta della cultura classica riposa sulla nozione che, pur appartenendo al suo tempo, alla sua particolare società, l’uomo non diventa veramente uomo se non dispone dei mezzi per prendere una certa distanza dalle realtà e dai problemi immediati, una distanza che sembra necessaria per l’esercizio del giudizio e lo sviluppo della libera personalità. L’uomo, si dice, deve ampliare il proprio orizzonte per quanto possibile; egli deve sfuggire all’ipnosi di quanto è transitorio, prendere coscienza del suo posto nell’insieme della storia umana.

Una tale cultura dovrebbe […] affinare il dono dell’apprezzamento e il senso critico, ispirare il senso delle responsabilità politica e civica, permettere una integrazione delle differenti conoscenze specialistiche, formare la sensibilità e il giudizio estetico, legare ciascun essere umano alla comunità di appartenenza, ma renderlo nello stesso tempo accogliente del messaggio delle culture di altri popoli.

Insomma, una cultura che apporti i mezzi e il desiderio di immaginazione, che “allarghi il quadro limitato e vincolante dei problemi immediati, e tramite la quale l’uomo sia in grado di conquistare la forma della saggezza di cui ha bisogno per superare la crisi della civiltà…” Ecco un parlare melodioso per rianimare l’universale che riposa nelle profondità della nostra antichità.

Un inizio di miracolo culturale dopo la guerra

Avendo ricostruito fino agli anni Sessanta le proprie città, alle nazioni dell’Europa post-bellica mancava l’infrastruttura dello spirito. Già nel 1946, a tale scopo il Regno Unito aveva inaugurato il Public Funding for the Arts, i cui fondi furono moltiplicati agli inizi degli anni Sessanta, e grazie ai quali furono sovvenzionate massicciamente le orchestre, le sale da concerto e i teatri d’opera.

In Germania la tradizione vuole che lo Stato prenda in carico tutte le spese per sostenere la musica: nella Berlino Ovest ciascuna nuova sala d’opera ricevette un fondo di venti marchi per ogni poltrona in modo che fosse la popolazione meno abbiente a beneficiarne. Amburgo godette di tanti fondi che certe opere musicali furono eseguite da migliaia di orchestre del mondo, senza che le finanze ne soffrissero, né ne soffrissero i portafogli degli spettatori.

In Francia il ministro della cultura André Malraux firmò un assegno in bianco in favore di coloro che dicevano di poter ravvivare la grande musica e nominò il compositore Marcel Landowski direttore musicale presso il nuovo ministero degli affari culturali, che definì un piano decennale il cui obiettivo era l’accesso di tutti alla musica classica, e che portò alla creazione, tra le altre cose, delle orchestre regionali.

La maggioranza dei paesi europei si unì nel comune sforzo di ricostruzione culturale, che fu una risposta collettiva al bisogno di bellezza e di sogni comuni, un atto politico il cui embrione era già esistito prima della guerra, ma senza portare a frutti. Una intera generazione era ormai chiamata a costruire una vita comune migliore.

Ma questo slancio popolare verso la musica classica non vide infine la luce sul Vecchio Continente. Nel Nuovo, proprio per uscire dalla Grande Depressione, il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt aveva decretato nel 1935, sotto l’influenza di sua moglie Eleanor, la creazione del Federal Music Project.

Lo scopo era stato quello di promuovere la fruizione della grande musica facilitando l’accesso ai concerti e introducendo l’insegnamento di uno strumento musicale, uno per studente, nelle aule scolastiche, rivolgendo una particolare attenzione ai bambini più sfavoriti. Si era trattato di uno sforzo considerevole di far rinascere le opere di Bach, Mozart e Beethoven, insieme ai Negro Spiritual (canti di speranza degli schiavi del Sud degli Stati Uniti d’America). Nonostante l’immenso successo del progetto, esso fu annullato nel 1943 dai nemici del New Deal, la cricca politica al servizio di Wall Street e dei suoi interessi.

La finanza si accorda

Dopo la morte di Roosevelt, gli Stati Uniti d’America presero un ben diverso cammino. La musica di Mozart non trovava più i finanziamenti pubblici degni di questo nome: così la generosa Fondazione Ford e il gruppo Rockefeller depositarono una parte della loro fortuna sul tavolo. Unica nota stonata: degli 82,5 milioni di dollari posti a disposizione delle orchestre, ciascuna compagnia musicale avrebbe dovuto metterci il doppio per i propri concerti o iniziative. Per sopravvivere, la musica classica fu immediatamente pregata di adattarsi a una logica finanziaria senza pietà.

Questa tendenza si accentuò fino agli anni Settanta e fu soprattutto attraverso l’Inghilterra che questa pratica sbarcò in Europa. Secondo il cronista musicale della BBC Norman Lebrecht, la rete dell’alta finanza inglese offrì all’immensa industria americana una infiltrazione senza precedenti in Europa, facendo da ponte tra Wall Street e la City di Londra.

Il 3 marzo 1982 l’élite finanziaria inglese inaugurò al costo di un centinaio di milioni di sterline il famoso Barbican Center, opera prestigiosa presentata dal nucleo degli interessi finanziari della City come un dono alla nazione (Scuola di musica e di teatro di Guildhall, Orchestra sinfonica di Londra, Royal Shakespeare Company).

Libere da ogni regola o vincolo, l’arte e la cultura furono quindi lasciate al capriccio dei fondi privati. In questo controllo, le società più attive furono Lucky Strike e Phillip Morris. D’altra parte, nell’ufficio londinese della Imperial Tobacco venne fondata una delle più grandi associazioni di sostegno alle arti. Il suo direttore, Luke Rittner, diventò rapidamente il segretario generale del Consiglio delle Arti, sotto la tutela del primo ministro Margaret Thatcher.

Il crac…

Gli affari andavano molto bene, le grandi fortune investivano nell’opera lirica, coscienti del ritorno in termini di considerazione sociale e delle possibilità esclusive che essa offre all’immagine delle multinazionali. Una piramide di fondi privati si formava dunque attorno alle sale dei mercati di Wall Street.

L’affare della musica classica era finita quasi esclusivamente nelle mani di qualche ricco privilegiato quando il crac del 19 ottobre 1987 colpì all’improvviso l’economia mondiale. Presi nella trappola di una contrazione dei mercati, gli artisti non ebbero altra scelta che assumere consulenti che li facessero individuare nuovi sostenitori.

Talvolta furono costretti a eseguire le opere due o tre volte in più all’anno, per poter guadagnare ancora in modo dignitoso. Talvolta caddero in un meccanismo che avrebbe reso sempre minore il tempo concesso per riflettere sulla rappresentazione in preparazione, a danno dell’arte.

Nell’Inghilterra degli anni Novanta i fondi della società private superarono ormai abbondantemente quelli pubblici, tagliati da Margaret Thatcher: soltanto il 20 % delle somme dedicate all’arte erano di natura pubblica.

In Francia, il gruppo Caisse des dépôts investì 27 milioni di euro per “ravvivare la vita musicale” presso il teatro degli Champs Élysées e France Télécom diventò il grande finanziatore dei teatri d’opera regionali, essi pure vittime dei tagli dei fondi statali.

Per accelerare il fenomeno, la Commissione Europea pubblicò nel 1991 un rapporto per giustificare il ruolo essenziale degli sponsor privati nella vita dell’arte e creò nella medesima prospettiva un Comitato europeo per l’avvicinamento dell’economia e della cultura (CEREC) al fine di incoraggiare un patrocinio culturale paneuropeo.

Ecco che l’illusione della generosità disinteressata dei fondi privati fu dissimulata abilmente in un paesaggio di democratizzazione delle arti e della cultura, mentre i dirigenti politici lodavano la carità dei nuovi filantropi dell’arte. È proprio in questa epoca di cerniera che i registi furono pregati di “innovare”, di rielaborare le grandi opere classiche, al fine di attirare un pubblico più vasto. Sistematicamente il linguaggio metaforico fu sostituito da un linguaggio simbolico; nelle opere di Verdi e Mozart si introdusse il sangue, il sesso e l’anacronismo.

Ancora oggi, certe grandi opere sono sfigurate nel nome dell’ammodernamento artistico. Come ammette il direttore di Digital, ciò che importa è che “la somma di denaro spesa per le arti abbia un grande effetto di ritorno sugli investimenti (sic) – possiamo misurarne gli affari tramite i benefici”.

Il prezzo delle poltrone nelle sale da concerto è ormai diventato inaccessibile alla maggioranza degli spettatori; non è più pensabile assaporare una sinfonia dal vivo, di esserne mossi emotivamente nella propria poltrona: ciò è ormai riservato a una classe di privilegiati, mentre la maggioranza dell’umanità è costretta ad ascoltare un CD, privata dell’intimità e dell’effervescenza di una rappresentazione vissuta.

Una musica senza anima

Mark McCormack, amico di Margaret Thatcher, tese un parallelo interessante tra il business degli sport di massa in televisione (di cui fu il pioniere) e il mondo musicale. Percorse a tappe il cammino che lo portò al business della musica e assunse la direzione dell’IMG (International Management Group), diventando uno dei più grandi sostenitori della musica classica. “Non vedevo la differenza tra un violinista abile e uno scarso”, dichiarò un giorno.

Sapeva, tuttavia, come farne un affare, grazie alle prestazioni delle star e gonfiando il prezzo d’entrata, e smerciando gli opportuni gadget. Grazie alla sua fortuna, McCormack invita spesso gli artisti classici a riprogrammare la propria carriera lontano dai concerti e dalla opere ordinarie, portandoli a suonare negli stadi o anche durante particolari avvenimenti, come l’apertura delle grandi competizioni sportive.

Essendo in pericolo l’accesso popolare alla musica di Bach, Mozart e Beethoven alcuni artisti lanciarono l’allarme: tra questi il direttore d’orchestra di San Pietroburgo Mariss Jansons, che così si espresse in un’intervista del 1993:

“Ovunque nel mondo i politici non si occupano abbastanza dell’arte. Si sono avuti alcun progressi tecnologici, ma l’armonia tra le cose materiali e spirituali si è ridotta. La vita spirituale del mondo è stata degradata con le guerre e con la diffusione massiccia di stupefacenti; le anime degli uomini si svuotano. Tagliare i finanziamenti della promozione dell’arte crea delle grandi tragedie”.

A questo vuoto, tuttavia, che cosa è stato sostituito?

Cultura di massa, trapasso dell’umano

L’evasione proposta oggi dalla televisione pone in ombra in modo crudele le visite ai musei o i concerti mozartiani di quartiere. La violenza e il sesso gratuito di Game of Thrones hanno sostituito i drammi rivoluzionari di Shakespeare e le grandi opere dell’umanità sono sempre più sottratte al popolo da un’élite ch’è lupo in un manto d’agnello.

Se si trascura qualche iniziativa generosa, le poltrone in prima fila ormai arrivano a costare 200 euro, rendendo l’auditorium “un luogo usato dalla élite per convincersi di non esser fredda, disumana e conservatrice, come è accusata di essere”, riconosce lo stesso Jacques Attali.

Il popolo, da parte sua, si consola ascoltando musica elettronica o guardando la televisione, offrendo così nuove prospettive di profitto alle multinazionali dell’elettronica.

La musica “in scatola” o “a colpi di martello” della durata di 3 minuti e mezzo inonda così i supermercati, le sale d’attesa, ecc. Lo sforzo di questa industria non ha altro obiettivo che creare delle star per ogni prodotto, di farle conoscere e vendere il più possibile. L’effimero detta legge, il bello dovrà portar pazienza.

Scoppia la bolla

“Ho sempre pensato che per molte ore alla settimana la gente voglia divertirsi. Vuole stravaccarsi sul divano, con una tazza di caffè, e gustarsi una buona trasmissione televisiva senza far altro”, afferma l’olandese John de Mol, uno dei più grandi miliardari di questo mondo.

Suo nonno, che possedeva una sua propria orchestra, fa parte di questa oligarchia della cultura, con un occhio sull’eredità classica e un occhio, inquieto, sempre attento al comportamento del popolino. Ha deciso di occuparsi delle “masse”. All’alba dello sgonfiamento della bolla della “new economy” del 2000, de Mol trasforma il concetto della televisione in tele-realtà e ne fa un fenomeno sociale.

Il “Grande Fratello”, un gioco per guardoni, osceno e ispirato all’eliminazione per competizione, è il primo prodotto di de Mol. In diretta alla televisione, una grande massa di giovani si appassiona davanti a scene in cui adulti esibiscono le pulsioni più animalesche, senza limiti né complessi, che diventano presto la norma di comportamento di cui si discute in occasione di ogni vacanza.

Molto rapidamente l’Italia, la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati Uniti, la Svezia, il Belgio e la Svizzera entrano nella trappola. La Francia ne rimane fuori…

Immediatamente i grandi azionisti delle televisioni commerciali vanno nel panico. La bolla speculativa esplode, trascinando Vivendi e France Télécom negli abissi. La catene private TF1 e M6, quotate in borsa tra le società dell’informazione e della comunicazione, assistono al calo delle loro azioni senza la speranza di rivedere la luce del sole, fino al marzo 2001, momento in cui la direzione di M6 contatta il “salvifico” John de Mol. M6 compra i diritti del “Grande Fratello”, dando i natali al famoso “Loft Story”, e vede le sue azioni stabilizzarsi sui mercati.

L’11 maggio 2001 il direttore di TF1 Patrick Le Lay si infiamma su Le Monde: “Si può mostrare qualunque cosa alla televisione? Come due francesi su tre, noi di TF1 rispondiamo di no. […] Spetta al CSA dire se un canale generalista pubblico possa diffondere a un’ora, in cui la maggioranza dei bambini guarda la televisione, un programma incitante i giovani a formare coppie temporanee al fine di un guadagno”.

Ma alla fine dell’estate 2001 TF1 ha perso l’80% del valore sul mercato e decide nel panico di seguire la corrente. Patrick Le Lay annuncia la firma di un’esclusiva per i futuri programmi della società Endemol diretta da John de Mol.

Il dominio sull’altro, la cupidigia, il narcisismo e l’eliminazione dell’anello più debole diventano la regola generale delle trasmissioni televisive. Si tratta davvero di “divertimento”, quando lo scopo del gioco è di essere grandi manipolatori e grandi perversi, al fine di ottenere un profitto?

In un contesto dominato dalla crisi economica e dalla disoccupazione, i programmi “L’anello debole” o “Koh-Lanta” vi rammentano che per sopravvivere e guadagnare qualcosa, dovete essere impietosi e accettare di sottomettervi alla regola del gioco.

Evidentemente, questa norma plasma anche le più giovani generazioni. Immerse in una società senza visioni né sogni comuni, esse sono torturate dalla noia e dal vuoto. Servono loro, dunque, una dose di “musica” di sottofondo, di televisione, di cinema, di videogiochi, di discoteca, di uscite notturne, ecc. “Se i francesi hanno il sentimento di aver perso la loro identità”, dichiara il filosofo Bernard Stiegler, “non è affatto a causa dei magrebini, o degli africani, o degli asiatici che immigrano in Francia; è perché il marketing li ha privati della loro cultura. […] È perché i professori non possono più fare concorrenza alle televisione, che capta l’attenzione in modo ben più efficace di loro”.

Certuni l’hanno capito bene. Il padre artistico di Justin Bieber e di Eminem, il britannico Max Hole, è direttore dell’UMGI (Universal Music Group International), la massima industria musicale del mondo, con sede negli Stati Uniti d’America ma ormai appartenente al gruppo francese Vivendi.

Nel 2011 Max Hole firma uno dei più costosi contratti con John de Mol e acquista i diritti di “The Voice”, una trasmissione presente su tutti i continenti, in cui dei giovani cantanti sono chiamati a sapersi vendere davanti a un pubblico e a una giuria senza pietà. Creare star? Perché non farlo facendo appello ai pollici di un pubblico da colosseo?

L’industria musicale è riuscita ad adattarsi alla logica di un televisione interamente dedita all’audience di massa, non per elevare gli individui, ma per formare un impero capace di plasmare una nuova cultura dell’istantaneo, dell’apparenza, nella quale è richiesta la dissimulazione. Nuovi Ozymandias effimeri si ergono a profeti davanti a un pubblico vuotato di ogni senso spirituale e storico, per la grande felicità dell’oligarchia finanziaria.

Già nel 1965 il filosofo Joseph Follier sottolineava il pericolo di un cultura di massa basata sul culto dell’individuo, considerato libero sì, ma di fatto costantemente manipolato. Disse che per essere pienamente umani, la cultura deve essere “demassificata”.

Di fronte a una cultura d’intimidazione, con il danaro e il potere, noi dobbiamo batterci per ricreare l’ideale repubblicano, per il quale ciascuno, nella sua propria maniera e con le sue proprie differenze, apporti la sua parte di bellezza entro la bruttezza onnipresente, rischiando il disprezzo ma anche la sorpresa. Si tratta di un dono generoso da offrire, per accogliere nuovamente una cultura del popolo, fatta dal popolo e per il popolo. Seguiamo il consiglio del grande poeta tedesco Friedrich Schiller:

“La dignità dell’uomo è nelle vostre mani, abbiatene cura! Con voi declina! Con voi s’innalza!”

Di questo articolo abbiamo tradotto anche l’appendice “Il Mozart di domani sarà cinese?”.