Ha da tempo stravolto lo scopo per il quale era stato creato. I suoi criteri monetaristi urtano contro le esigenze reali della comunità internazionale.




Uno degli aspetti meno compresi della crisi finanziaria esplosa in Asia è il ruolo che vi ha svolto il Fondo Monetario Internazionale. I suoi difensori dicono che senza il pronto intervento del FMI prima in Thailandia, poi in Indonesia e nella Corea del Sud la crisi asiatica sarebbe sicuramente sfuggita ad ogni controllo per diventare una crisi sistemica globale.
A guardar meglio, però, si giunge a conclusioni ben diverse: è ora di abolire il FMI e istituire al suo posto una nuova organizzazione preposta a promuovere lo sviluppo economico nel pieno rispetto delle sovranità nazionali.


Dal maggio 1997, quando scoppiò la crisi Thailandese, il FMI ha organizzato crediti di salvataggio per 120 miliardi di dollari, cercando così di impedire il panico e arginare la crisi. Quasi un anno dopo, si può dire che gli sforzi del FMI sono stati fallimentari. La medicina delle “condizioni” del Fondo è un salasso imposto ad economie dissanguate dalla crisi finanziaria. Sono misure che fanno straripare la crisi oltre gli argini asiatici e la diffondono nel resto del mondo.
Una fuga di notizie ha portato sulle pagine del New York Times del 14 gennaio 1998 alcuni stralci di un rapporto interno del FMI, che era stato redatto per il direttore Camdessus e per i colleghi della dirigenza. Il rapporto descrive dettagliatamente come, nel caso dell’Indonesia, le decisioni del FMI abbiano trasformato una situazione difficile in una impossibile.


Lo scorso novembre, quando non si voleva ancora credere che la crisi asiatica potesse minacciare il sistema finanziario globale, la direzione del FMI a Washington ordinò la chiusura di 16 banche indonesiane insolventi, tra cui quella del figlio del Presidente Suharto. Al FMI dicevano che la decisione mirava a “ripristinare la fiducia” nel sistema bancario indonesiano. Il rapporto invece spiega che, come si poteva ben prevedere, la decisione spinse decine di migliaia di indonesiani a ritirare precipitosamente i propri risparmi.


“Queste chiusure però si ammette nel rapporto lungi dal promuovere la fiducia del pubblico nel sistema bancario, hanno innescato una nuova `corsa al rifugio’.” Il rapporto calcola che gli indonesiani abbiano improvvisamente ritirato due miliardi di dollari dalle banche nei giorni immediatamente successivi al decreto del FMI. La batosta per il sistema bancario non poteva essere peggiore.


Alla fine di novembre due terzi delle banche indonesiane “hanno subìto una corsa al ritiro dei depositi”, dice il FMI. Per evitare il crollo generale la Banca centrale indonesiana si è vista costretta a pompare liquidità alle banche, per un totale “equivalente a circa il 5% del PIL degli ultimi due mesi”, dice il rapporto. Quest’ondata di denaro a sua volta ha indebolito la rupia, al punto da scatenare il panico che ha caratterizzato la fine di dicembre, spingendo l’Indonesia in un vicolo cieco dal quale non potrà uscire da sola.


Le sette piaghe del FMI


In cambio di fondi di emergenza il FMI ha imposto all’Indonesia, alla Thailandia e alla ben più grande economia sudcoreana la sua ricetta ortodossa: ridurre il deficit del bilancio, ridurre l’inflazione, chiudere le banche in difficoltà, abolire i controlli dello stato sull’economia, abolire i sussidi statali per i generi di prima necessità, soprattutto alimentari e carburanti.


Sette sono le condizioni imposte dal FMI all’Indonesia in cambio di un pacchetto di salvataggio di 39 miliardi di dollari: mantenere l’inflazione al di sotto del 20% evitando al contempo una recessione economica; mantenere il deficit di bilancio al di sotto dell’1% del PIL; ascrivere al bilancio statale spese in precedenza tenute fuori bilancio; cancellare diversi progetti pubblici bollati come “inutili”; rendere la banca centrale indipendente in materia di politica monetaria, libera di aumentare i tassi d’interesse come ritiene opportuno per difendere la rupia; ristrutturare banche e imprese; sciogliere associazioni come quella dei produttori di legname.


Balza agli occhi la totale estraneità delle sette richieste del FMI alla situazione economica in cui versa l’Indonesia. Sono misure che non fanno altro che aggravare la crisi monetaria, promuovono la recessione ed indeboliscono la capacità d’esportazione e le associazioni che con l’export hanno finora raccolto gran parte della valuta forte disponibile per la bilancia commerciale. Questa medicina è stata somministrata dopo aver messo il paese in ginocchio con il panico bancario.
Il crollo della rupia, causato da queste misure, a sua volta ha creato una crisi del debito di dimensioni spettacolari quando le banche e le imprese si sono rese conto che in meno di una settimana la moneta indonesiana era scesa all’84% del suo valore rispetto al dollaro registrato ad agosto.


Diversamente dal Messico e dagli altri paesi latinoamericani, che furono costretti a rivolgersi al FMI per l’emergenza del debito verificatasi negli anni Ottanta, le economie asiatiche complessivamente non soffrivano di nessun problema preesistente nel momento in cui si è abbattuta su di loro la crisi. Non avevano nessun problema cronico di deficit di bilancio o di inflazione, non avevano problemi di instabilità macroeconomica, né avevano accumulato debito statale, come era accaduto all’Argentina e al Brasile. I loro erano debiti del settore privato.


Che cos’è davvero il FMI?


Il Fondo Monetario, forse l’istituzione finanziaria più potente del pianeta, nacque dagli accordi della conferenza internazionale di Bretton Woods tenutasi nel 1944 nel New Hampshire. Quella conferenza fu indetta dal Presidente Franklin D. Roosevelt per definire delle solide basi alla ricostruzione del dopoguerra. Nell’intenzione dei suoi artefici, il FMI doveva essere una cosa diversa da quello che poi è diventato.


Alla conferenza parteciparono 44 nazioni che firmarono, insieme agli USA, i cosiddetti Articoli di Accordo del Fondo Monetario Internazionale in base ai quali il Fondo cominciò ad operare il 27 dicembre 1945. Ciascun paese membro avrebbe contribuito ad un fondo centrale con base a Washington che, in circostanze speciali, avrebbe esteso crediti ai paesi membri di cui si accertava il bisogno e che erano disposti a rispettare le condizioni.


Le famose “condizioni” del FMI che i paesi sono tenuti a rispettare per ottenere un credito d’emergenza assunsero la forma codificata e quasi giuridica che hanno oggi verso la fine degli anni Cinquanta. A formularle è preposta la burocrazia del FMI che, da allora, è selezionata e allevata internazionalmente per costituire una casta di provata fede monetaristica (i campioni provengono dalla “Chicago school” di Milton Friedman, come il direttore degli Studi Economici Michael Mussa o il vice direttore Stanley Fischer. Il responsabile per l’Europa orientale, John Odling-Smee, proviene invece dal ministero del Tesoro inglese negli anni della Thatcher).


Un paese che si rivolge al FMI deve dimostrare agli ispettori di attenersi ad una politica che “ricerca o mantiene la stabilità delle monete interessate, a tassi di cambio realistici”. Che cosa si debba intendere per realistico ovviamente lo decide il FMI. Tutto lo scrupolo posto sulla questione fondamentale dei tassi di cambio serve a controllare le leve economiche di un paese: politica fiscale, spesa pubblica e pubblica amministrazione. Come è stato evidenziato dalla crisi asiatica, da una parte il FMI detta la politica economica delle nazioni, mette in riga i governi, e dall’altra sfoggia una complice impotenza nei confronti dei grandi speculatori internazionali come George Soros, che hanno dato vita a quella crisi.
Il FMI non concede i suoi prestiti tutti in una volta, ma come “accordo standby”, ovvero in piccole “tranche”, ad ognuna delle quali deve corrispondere un rinnovato ossequio alle “condizioni”. Come dice lo stesso Fondo, è una tecnica che conferisce più autorità per indurre un paese “ad attuare con maggiore energia politiche miranti al mantenimento della stabilità monetaria e a garantire il necessario sistema liberista dei pagamenti “. Ovvero, rigido controllo del credito e completa convertibilità della moneta, così come il FMI sta ottenendo attualmente nella crisi asiatica.


Gli Stati Uniti, che ovviamente hanno sempre contribuito al Fondo con la quota maggiore, inizialmente si riservavano il 33,5% dei diritti di voto. Successivamente, la quota si è ridotta all’attuale 17,8%.


L’Inghilterra e cinque altri membri fondatori appartenenti al Commonwealth britannico India, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda e Canada ottennero la seconda percentuale maggiore del voto, che inizialmente era del 27%. Nonostante che l’Inghilterra fosse allora in bancarotta, Churchill e Keynes riuscirono a convincere gli USA che la stabilità del mondo coloniale dipendeva dal peso del loro voto. La Francia, che pure poteva vantare un vasto impero coloniale, ottenne invece solo il 5% dei voti.


Gli articoli dello statuto originale del FMI furono il risultato di mesi di discussioni preparatorie tra il sottosegretario del Tesoro USA Harry Dexter White e John Maynard Keynes, ministro del Tesoro di sua maestà. Tutto sommato l’Inghilterra dovette rinunciare a molti dei punti proposti e accettare il piano di Roosevelt e del ministro al Tesoro Morgenthau di istituire un Fondo di Stabilizzazione mirante ad impedire un ripetersi della crisi monetaria verificatasi negli anni Trenta. Questo fondo, progettato da White, doveva operare in tandem con una Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo istituita per estendere crediti in dollari a lungo termine alla ricostruzione, in particolare nei paesi dell’Europa occidentale. I due organismi furono successivamente istituiti sotto la forma di FMI e Banca Mondiale. Keynes invece voleva che si costituisse una Clearing Union (una banca di compensazione sul modello di quella che funzionava a Londra prima della guerra), e una moneta unica sovrannazionale che propose di chiamare “Unitas”.


La trappola dell’anticomunismo


All’inizio degli anni Cinquanta gli Stati Uniti furono scossi dalla caccia alle streghe del maccartismo. Harry Dexter White fu prontamente accusato di essere un “simpatizzante dei comunisti”, o perfino una spia comunista, e tutto il suo operato nei negoziati di Bretton Woods e poi come capo della missione USA presso il FMI fu rimesso in discussione.


Successivamente è stato accertato che il terrore anticomunista scatenato dal sen. Joe MaCarthy e dal capo della FBI J. Edgar Hoover era in larga parte pilotato dall’ambasciata di Londra a Washington, e si deve presumere pertanto che White fosse nella lista nera dell’ambasciatore. Da una revisione dell’operato di White non risulta che intendesse discostarsi dagli obiettivi seguiti allora dagli USA. D’altro canto, come molti altri esponenti del gruppo attorno a Roosevelt, White non era anglofilo. Nel novembre 1945 White scrisse una nota al segretario al Tesoro Morgenthau in cui affermava: “È di poco conto ciò che potrà cambiare nei nostri rapporti con l’Inghilterra, o ciò che potrà verificarsi nei Balcani e nell’Estremo Oriente qualora si potessero risolvere i problemi tra gli Stati Uniti e la Russia”. Dopo un iniziale assenso ad una partecipazione sovietica nel FMI, Stalin decise successivamente di tenersene fuori.


L’ondata di isteria e sospetti contro White riuscì in ultima analisi ad indebolire la posizione e la determinazione politica degli USA nel contesto del FMI. L’Inghilterra stava ottenendo “con altri mezzi” ciò che Churchill e Keynes non erano riusciti ad ottenere con le buone. Negli anni successivi fu stabilito, quasi per legge, che il direttore del FMI dovesse essere sempre europeo, possibilmente un monetarista francese. Michel Camdessus, Jacques de Larosiere e Pierre-Paul Schweitzer provengono tutti e tre dalla Banca di Francia e tengono la posizione di vertice dal 1963, con l’unica parentesi dei cinque anni del monetarista sufi olandese Johannes Witteveen, che ha diretto il Fondo tra il 1973 ed il 1978.


Da tampone ad arbitro finanziario


Nel momento della fondazione tutte le potenze sapevano benissimo quale fosse il ruolo del FMI, che era limitato soprattutto alla stabilizzazione delle grandi economie industriali nell’immediato dopoguerra. Nei documenti d’archivio del Tesoro USA si legge che lo scopo del fondo multinazionale che si voleva realizzare era quello di “impedire disordini tra le valute ed il crollo dei sistemi monetario e creditizio; garantire il ripristino del commercio estero e fornire il grande volume di capitale necessario alla ricostruzione, per gli aiuti e per la ripresa economica”.


A Bretton Woods nessuno si fece avanti a proporre che il FMI dovesse assistere i paesi in via di sviluppo. Non fu mai creduto che questa dovesse essere una sua responsabilità. Si dava per scontato che la ripresa delle economie, in particolare quelle europee, avrebbe messo in moto automaticamente lo sviluppo del Terzo Mondo.


Il FMI fu pertanto istituito per garantire la stabilità delle monete dei paesi europei devastati dalla guerra, che costituiva la principale preoccupazione reale di quell’epoca. Questo è un fatto necessario per capire che oggi è ora di scioglierlo.


Nel suo mandato, il FMI era semplicemente incaricato di risolvere i problemi “temporanei” della bilancia dei pagamenti dei paesi membri, attingendo al fondo centrale. Erano soldi messi a disposizione per operazioni a breve termine e che dovevano essere rimborsati nel giro di cinque anni.


Nel 1945 la preoccupazione principale degli Stati Uniti era di ristabilire gli scambi commerciali, specialmente tra i paesi europei e gli USA. Il grattacapo dell’Inghilterra era invece la sua bilancia commerciale, che era finita in rosso a seguito del crollo delle esportazioni e della distruzione delle industrie durante la guerra. Per ristabilire l’equilibrio, all’Inghilterra non restava che dare fondo alle riserve oppure liquidare gli investimenti all’estero per disporre di contante. Così, l’idea di un pool di riserve di molte nazioni, soprattutto dell’America, per l’Inghilterra era il modo migliore di risolvere il dilemma. Con quei prestiti poteva subito importare i beni capitali per riattivare la produzione. Cominciare a produrre e far fronte ai danni della guerra era allora il significato concreto dell’espressione “ristabilire l’equilibrio”, il compito a cui era chiamato il Fondo, non solo per l’Inghilterra ma per ogni altro paese europeo.


Il meccanismo di funzionamento era questo. Un paese membro che incorreva in una crisi di liquidità a breve nella bilancia dei pagamenti poteva rivolgersi al Fondo contraendo un prestito quinquennale di stabilizzazione. Bastava ad ottenere l’ossigeno necessario per rimettere in carreggiata la produzione e riparare i danni. Questo, però, era un rimedio concepito per delle economie industrializzate mature, come quelle europee, incorse in danni pur gravi ma temporanei, alle quali però ancora restava un’esperienza di oltre un secolo di industrializzazione, una forza lavoro qualificata e adeguate strutture finanziarie. Evidentemente lo stesso non si può dire dell’intero terzo mondo, che allora si disponeva a compiere i primi passi nell’industrializzazione. Si tratta di due universi economici molto diversi ai quali non si può applicare lo stesso metro.


Il FMI ha continuato ad essere l’ultima risorsa a cui hanno attinto i paesi dell’OCSE fino al 1977, quando l’ultimo prestito del genere fu chiesto dall’Italia. Da allora in poi, il FMI non ha più esteso crediti per stabilizzare i paesi industrializzati, venendo così meno alla ragione per cui fu originariamente fondato. A seguito degli shock petroliferi, negli anni Settanta, gli Stati Uniti insieme a tutti gli altri avrebbero dovuto ragionevolmente decidere di disfarsi di un’istituzione che non rispondeva più alle esigenze economiche della nuova situazione internazionale.
C’erano delle forze però che si ripromettevano di ottenere fini diversi con il FMI.


Il poliziotto del debito del terzo mondo


A seguito delle due crisi petrolifere degli anni Settanta, paesi che erano allora in via di sviluppo, come il Brasile, l’Argentina, il Perù, alcuni paesi africani e altri del patto di Varsavia come la Polonia, cominciarono a indebitarsi pesantemente presso le banche inglesi che controllavano il mercato dell’Eurodollaro. A seguito dell’arbitrario aumento del 400% dei prezzi petroliferi, la loro bilancia dei pagamenti registrava forti passivi ed avevano quindi disperatamente bisogno di crediti.


Le banche inglesi dell’Eurodollaro sapevano benissimo che questi paesi non volevano ricorrere al FMI, per non sottostare alle dure condizioni, e offrirono generosamente il credito privato attraverso il mercato off-shore dell’Eurodollaro. Questo mercato off-shore aveva la sua capitale a Londra ed era nato da quello che Henry Kissinger allora definì “il riciclaggio dei petrodollari”, gli incalcolabili proventi del petrolio che finirono nei conti dei paesi esportatori di petrolio. Le banche inglesi prestavano i depositi degli sceicchi e dei paesi dell’OPEC alle vittime di quell’incredibile rincaro del prezzo del petrolio che lo stesso Henry Kissinger aveva ordito in combutta con quel gruppo di banche. Nel giustificare gli enormi prestiti ai paesi latinoamericani il presidente della Citibank Walter Wriston dichiarò: “Le imprese falliscono, gli stati no”.


Quei prestiti in petrodollari contenevano una postilla che si rivelò un capestro. Gli interessi sui prestiti dovevano essere “fluttuanti” secondo il Libor, il tasso interbancario di Londra. Prima del giugno 1979 i tassi di Londra erano concordemente considerati a buon mercato. Nessuno prima poteva sospettare che improvvisamente il premier britannico Margaret Thatcher, prontamente seguita da Paul Volcker della Federal Reserve USA, decidesse una impennata dei tassi d’interesse. A seguito di quei rialzi, alla fine del 1979 i tassi Libor sui crediti di Eurodollari al Terzo Mondo era triplicato in poche settimane.
Fu così accesa la miccia della bomba del debito del settore in via di sviluppo.


L’esplosione si verificò nell’agosto del 1982, quando il Messico fece sapere a Washington di non poter pagare la rata successiva degli interessi dovuti alle banche di New York. Fu in tale occasione che il FMI fu rimesso a nuovo per diventare l’ente che impone l’austerità feroce e tagli spietati ai livelli di vita di interi popoli.


Dopo l’insolvenza messicana del 1982, a cui fece seguito una crisi bancaria, Londra e le banche di New York avviarono una manovra concertata per saccheggiare i paesi debitori, per costringerli a pagare un servizio sul debito che è del tutto illegittimo e che supera ogni immaginazione.


Dietro pressioni dell’amministrazione Reagan, della Federal Reserve di Paul Volcker e delle banche di New York, il FMI stilò un nuovo programma di “condizioni” da imporre ai paesi in via di sviluppo. L’ideatore della nuova formula fu Irving Friedman, che poco dopo fu cooptato al vertice della Citicorp. Alla fine del 1988 Friedman dichiarò in un’intervista: “Pensai che la cosa migliore fosse di agitare le risorse del Fondo di fronte ai paesi, come se fossero una carota. Prima si deve sottoporre ad un attento esame la situazione economica del paese. Si identifica la fonte delle difficoltà e si dice che cosa bisogna cambiare.”


La formula del FMI era sempre la stessa: il paese debitore era costretto a tagliare le importazioni, svalutare la moneta (in modo da garantire che il debito estero denominato in dollari ne risultasse abbondantemente moltiplicato), ed imporre tagli draconiani ai sussidi governativi ai generi di prima necessità. Contemporaneamente i settori più appetibili dell’economia nazionale venivano aperti agli investitori stranieri a prezzi stracciati, giustificando la svendita sotto la rubrica “riforme liberiste”.


Così ad esempio il FMI ha costretto il Messico a tagliare le spese pubbliche eliminando i sussidi, soprattutto alimentari, a svalutare il peso dai 12 pesos per un dollaro nel 1982 ai 3300 pesos per un dollaro all’inizio del 1993, quando fu introdotto il “peso nuevo”. L’importazione di medicinali, macchinari per l’industria ed altre importazioni primarie fu semplicemente sospesa in blocco. La gente cominciò a morire senza una ragione mentre le banche creditrici riscuotevano imperterrite gli interessi.


Le banche dell’Eurodollaro, con centro a Londra, organizzarono un cartello delle banche creditrici che fu chiamato Ditchley Group, in riferimento al Ditchley Park di Londra, dove si incontrarono la prima volta. Teorizzavano sul senso di “responsabilità” che debbono avere i debitori nell’onorare i debiti e minacciavano di lasciare senza un centesimo chi non rispettasse le scadenze. Si trattò di minacce mafiose nude e crude che purtroppo funzionarono a dovere.


Secondo le cifre della Banca Mondiale il debito complessivo di 109 paesi in via di sviluppo nel 1980 ammontava a 430 miliardi di dollari. Da allora fino al 1986 essi pagarono, solo di interessi, 326 miliardi di dollari. Di capitale pagarono 322 miliardi. Complessivamente quindi pagarono 658 miliardi di dollari in sei anni su un debito iniziale di 430 miliardi. Ciononostante, sempre secondo cifre della Banca Mondiale e del FMI, i 109 debitori nel 1986 avevano ancora un debito complessivo di 882 miliardi di dollari! Il gioco di prestigio è semplice: più paghi, più ti indebiti in virtù del tasso d’interesse che aumenta da solo e sotto i colpi delle condizioni del FMI che inceppano l’economia.


I rinegoziati del debito susseguitisi dal 1982 hanno trasformato il fardello del debito del Terzo Mondo in una piramide di centinaia di miliardi. Grazie ai controlli del FMI sull’economia interna, le banche hanno continuato a prestare quel minimo indispensabile per garantire che i debitori paghino gli interessi sul debito. Fintanto che riesce a riscuotere gli interessi, una banca può dichiarare in bilancio tutto il debito come patrimonio allo scopo di erogare nuovo credito, anche se tutti sanno che non c’è modo di riscuotere un centesimo di capitale.


Dal 1982 fino alla nuova fase apertasi negli anni Novanta, nessun paese del Terzo Mondo è riuscito ad ottenere un nuovo credito. Ciononostante, per i 109 debitori il totale complessivo del debito con l’estero, denominato in dollari, aveva raggiunto i 1600 miliardi di dollari nel 1994, con un aumento netto di 1200 miliardi di dollari dal 1980.


Globalizzazione


Nell’ottobre del 1985 FMI della Banca Mondiale giunsero ad una svolta importante quando il segretario al Tesoro USA James Baker indisse a Washington un incontro delle principali banche americane e internazionali presieduto dal presidente della Federal Reserve Paul Volcker. In tale occasione fu definita una strategia per utilizzare i fondi e l’autorità delle due istituzioni. Al FMI ed alla Banca Mondiale non competeva più solo l’esazione del vecchio debito, ma anche il compito di imporre ai paesi del Terzo Mondo nuovi diktat per la liberalizzazione, per la privatizzazione delle industrie di stato e di tutte le altre misure che passano sotto il nome di “globalizzazione”.


Alla fine degli anni Ottanta la Banca Mondiale fu trasformata in ente preposto al processo di globalizzazione dell’industria. Qualche governo del Terzo Mondo ed i rispettivi funzionari in seno alla Banca Mondiale inutilmente protestarono di fronte a quella che era una palese trasformazione di una banca multilaterale per lo sviluppo in un bieco strumento di espansione delle multinazionali nelle riserve di manodopera quasi gratuita nei paesi poveri.


In un discorso all’incontro annuale di FMI e Banca Mondiale del 27 settembre 1993, Michel Camdessus lodò la globalizzazione con queste parole: “Lo sviluppo più significativo degli ultimi decenni di questo secolo è il fenomeno della globalizzazione che sta trasformando la nostra vita economica”.


I crediti estesi dalla Banca Mondiale adesso non potevano più essere utilizzati nella costruzione di infrastrutture di base, ma dovevano servire solo come incentivi per promuovere la globalizzazione, per porre le economie nazionali a disposizione delle grandi multinazionali.


Le nuove regole di convertibilità monetaria imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale permettono alle multinazionali di estrarre i profitti senza restrizioni, cosa che, ad esempio, ha permesso agli hedge funds capitanati dal Quantum Fund di George Soros di scatenare la crisi finanziaria in Asia.


Nell’ultimo decennio i paesi debitori non ricevono “l’approvazione” del FMI se non acconsentono alle richieste delle grandi multinazionali di svalutare la moneta nazionale rispetto al dollaro, cedere ogni difesa dei mercati interni e svendere i patrimoni di stato attraverso le privatizzazioni, con la scusa di ridurre il deficit del bilancio. Il risultato è una forma di “neo-colonialismo”.


Disintegrazione dell’Est europeo


All’inizio degli anni Novanta, la politica del FMI è stata somministrata anche alle economie degli paesi ex socialisti dell’Europa dell’Est. L’obiettivo era sia economico che geopolitico: spingere la Russia in un processo di indebolimento e frammentazione e sottoporre le economie dell’Europa orientale ad un rapido trattamento di saccheggio con le tecniche collaudate dal FMI in America Latina. Restava un piccolo problema formale; quei paesi non erano membri del FMI.


In un batter d’occhio, al vertice del G-7 tenutosi nel giugno 1990 a Houston, George Bush, su pressioni della Thatcher e di François Mitterrand, accettò di incaricare il FMI dell’intero processo di ristrutturazione di quella che era ancora l’Unione Sovietica, così come aveva già fatto nel 1989 in Polonia e in Jugoslavia. A proposito della Jugoslavia, occorre notare che le misure imposte dal FMI costituirono il principale fattore catalitico che fece precipitare l’intera regione balcanica nella guerra fratricida esplosa qualche mese dopo. Tanta era la fretta di mettere le redini in mano al FMI, che il G-7 rinunciò persino ad una formale adesione dell’Unione Sovietica al Fondo. Si accontentarono di uno status speciale di “membro aggiunto”. La politica di privatizzazione attraverso la famosa “terapia d’urto” fu ammantata delle teorizzazioni futuriste di Jeffrey Sachs.