Per molti aspetti, la visita di Donald Trump in Asia è stata storica. Dopo aver consolidato i già buoni rapporti con il premier giapponese Shinzo Abe e il leader sudcoreano Moon Jae-in nella prima parte del viaggio, la sua “visita di stato plus” in Cina è stato un momento saliente, seguito dalla partecipazione ai vertici APEC, ASEAN e East Asia, affiancata da visite di stato ai due Paesi ospiti, Vietnam e Filippine.

In tutte queste occasioni, Trump ha sottolineato la necessità di sviluppare e mantenere buoni rapporti con tutti i Paesi. Nel far ciò, egli ha assestato un colpo alla dottrina geopolitica del “divide et impera” che domina la politica estera occidentale da decenni.

L’assenza di un incontro privato con Vladimir Putin ha alimentato i titoli dei media, ma il Presidente russo sa bene che il problema è dovuto alle “lotte intestine” negli Stati Uniti. Ciò non ha impedito tuttavia che i due Presidenti firmassero un importantissimo documento sulla Siria, che riconosce la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di Damasco e prevede un’intensificazione del processo politico a Ginevra, coinvolgendo tutte le parti con l’eccezione degli jihadisti anti-Assad.

Da prima che fosse eletto, Trump è sotto gli attacchi costanti del cosiddetto establishment a causa dell’intenzione di voler collaborare con Russia e Cina. Anche i neocon nel Partito Repubblicano, che non hanno mai accettato la sua candidatura, gli hanno dichiarato guerra: tra questi i senatori Bob Corker, John Mccain e Lindsay Graham.

Ciononostante, Trump ha tenuto la barra del timone dritta. Parlando alla stampa il 12 novembre ad Hanoi, egli ha rimarcato: “È molto, molto importante che abbiamo buoni rapporti con la Russia, con la Cina, col Vietnam e con molti altri Paesi”, perché dobbiamo “risolvere i problemi della Corea del Nord, della Siria, dell’Ucraina, del terrorismo”.